L’altro giorno vi ho fatto la sintesi del mio “stato dei lavori” artistico e interiore. Oggi posso stilare il quadro generale degli impegni di maggio e della prima metà di giugno, legati ai miei libri e alle mie traduzioni edite.
Si comincia l’11 maggio alle ore 18 al Salone del Libro di Torino, quando sarò allo stand di Golem Edizioni (il G66 nel Padiglione 2) per un firmacopie in veste di traduttore del romanzo dello scrittore cubano Amir Valle uscito lo scorso settembre, Il santuario delle ombre.
Proseguendo con gli appuntamenti di maggio, e ricordando che al Salone di Torino sarò comunque dal 10 a tutto il 12, rientrerò a Firenze il 13 in tempo per l’appuntamento di martedì14 maggio (ore 18) presso “Itaca”, la residenza letteraria e circolo culturale dall’amico scrittore e giornalista Paolo Ciampi legato alla casa editrice I Libri di Mompracem: un incontro dal titolo “Il suono tra musica, scrittura e traduzione”, con il chitarrista classico e compositore Ganesh Del Vescovo (mio maestro, come sapete).
IL SANTUARIO DELLE OMBRE RECENSITO DA FRANCESCO IMPROTA
Su RPLibri è uscita una bellissima recensione del Prof. Francesco Improta del romanzo da me tradotto Il santuario delle ombredello scrittore cubanoAmir Valle (recentemente uscito per Golem Edizioni). Cito l’inizio del pezzo, ringraziando il Prof. Improta per le parole che ha speso sul mio lavoro di traduzione e rimandandovi al sito per la versione integrale:
“Da poco più di un mese è arrivato in libreria, nella sontuosa traduzione di Giovanni Agnoloni, Il santuario delle ombre di Amir Valle, scrittore cubano che attualmente vive e lavora a Berlino. Come si può leggere sul suo sito internet, “Amir non abita (più) a Cuba ma Cuba abita (sempre) in lui”, nel senso che egli è visceralmente legato alla sua terra d’origine e non può prescindere da essa. Non solo i suoi libri, di fiction o di saggistica poco importa, sono ambientati a Cuba ma affrontano anche e soprattutto i problemi e le contraddizioni, le aspettative e le delusioni, la corruzione e le paure di quest’isola caraibica. Ne LePorte della notte, tradotto sempre da Agnoloni e pubblicato in Italia nel 2013, un anno dopo Non lasciar mai che ti vedano piangere, Valle aveva affrontato una delle piaghe peggiori del nostro tempo, la pedofilia spesso contrabbandata sotto l’etichetta, già di per sé disdicevole e vergognosa, di turismo sessuale così diffuso nell’America centrale e meridionale, qui, ne Il santuario delle ombre, denuncia un fenomeno ancora più drammatico: la fuga dei cubani dal regime, nell’illusione di un futuro migliore, che finiscono vittime dei cosiddetti traghettatori che li derubano, li uccidono e li gettano a mare (si parla di oltre 20.000 cubani finiti in questo modo). Alla storia reale, corredata da fatti realmente accaduti e personaggi veramente esistiti, che ha non poche consonanze con le migrazioni verso l’Europa di africani disperati che cercano di sfuggire alla guerra o alla miseria e che spesso diventano cibo per i pesci del Mediterraneo, s’intreccia una vicenda di fantasia, a mezzo tra l’inchiesta giornalistica e il noir.”
Ieri notte ho fatto un sogno che collima con qualcosa che compare nel mio nuovo romanzo in corso di stesura, La via dell’altrove, e per la precisione (l’ennesima sincronicità) nel capitolo che oggi ho rielaborato battendolo al computer. Ovvero, il palazzo di Via Bezzuoli, a Firenze in zona Isolotto, dove ho abitato fino ai dieci anni di età (lo vedete nello screenshot che ho estratto da GoogleMaps) – e che pure ricorre in uno dei libri ancora inediti che ho finito quest’anno, il post-distopico Storia di uno straniero.
Nel sogno salivo in ascensore insieme niente meno che ai Beatles. O meglio, a John Lennon, Paul McCartney e George Harrison (Ringo Starr avrà avuto da fare). Va detto che la sera prima avevo rivisto parte del documentario John Lennon a New York, ma vabbè. Il punto è che dicevo loro che, pur considerandoli dei geni (paragonavo tipo John a Leonardo da Vinci e Paul a Michelangelo), il mio preferito era sempre stato George Harrison (ricordo qui il bellissimo articolo a lui dedicato da un altro Leonardo, l’amico Masi, su Postpopuli). E in effetti è vero. John ci rimaneva un po’ male, mentre a Paul non sembrava fregare in modo particolare. George taceva dignitosamente. Poi entravamo in casa e mia madre ci preparava una merenda, come ai vecchi tempi (e come ricordo pure nel nuovo romanzo). Fine del sogno.
Poi dice che gli scrittori che vanno a letto tardi si gingillano – un po’ come Joseph Conrad alla finestra secondo sua moglie, nella celebre storiella che gira da anni e che potrebbe anche essere del tutto inventata (v. qui).
Ieri ho fatto l’una di notte per vedere un film francese pressoché sconosciuto: Quel giorno d’estate (titolo originale: “Amanda”) di Mikhaël Hers, con vari attori tra cui Vincent Lacoste, Stacy Martin, la giovanissima protagonista Isaure Multrier e (in una parte minore) la più nota Greta Scacchi. Pellicola in tipico stile transalpino, con uno speciale gusto delle atmosfere e delle ambientazioni, e soprattutto un’eccezionale capacità di rappresentazione dei dettagli delle cose quotidiane nel – ed è un “nel” importantissimo – raccontare una tragedia. Ovvero, la morte della sorella del protagonista, madre di una bambina di 7-8 anni, e la scelta del fratello della donna (e zio della piccola), appena ventiquattrenne, di prendersi cura di lei.
Tra ieri e oggi, facendo lo slalom fra la traduzione del romanzo francese in corso e la scrittura del romanzo La via dell’altrove, ho ripreso la pratica dello svedese e del polacco ascoltati e parlati, mediante canali Youtube dedicati e conversazioni via Skype con amici madrelingua che vivono all’estero. Una sana abitudine da me acquisita nell’osceno periodo dei lockdown – forse l’unica cosa buona che ne abbia ricavato, oltre alle tante pagine scritte in quei mesi a questo tavolo (v. prima foto).
Così ho riflettuto su come, per le lingue, valga la stessa cosa che vale per la chitarra classica: le “regole” contano, ma senza la pratica (dei pezzi come delle conversazioni della vita reale) servono a poco. O meglio, possono bastare per tradurre, un po’ come quando al liceo si facevano le versioni di latino e greco antico (lingue puramente teoriche), ma non per vivere. Perché le lingue, come la musica, sono cose vive. E, in definitiva, anche la traduzione, come la scrittura, beneficia moltissimo dell’abitudine di parlare gli idiomi che ne sono oggetto: il risultato è più naturale, perché entri maggiormente nello spirito dell’ambiente da cui quel testo proviene.
Ieri, insieme al mio traduttore svedese Johan Arnborg, ho tenuto la mia prima conferenza su traduzione letteraria e scrittura presso il Consiglio degli Studenti della Facoltà di Lingue romanze e antiche dell’Università di Stoccolma.
Ringrazio moltissimo Theo e tutti gli studenti che hanno organizzato l’incontro, e posto alcune foto dell’evento, che è andato benissimo, con ottima partecipazione da parte degli studenti, molto coinvolti e partecipi, con domande interessanti e capaci di ispirare. (Non li vedrete nelle immagini solo perché l’Ateneo ha norme rigorose in materia di privacy.)
Un momento della conferenza insieme a Johan Arnborg (foto scattata dalla studentessa Josefin)
Vorrei condividere qui l’oggetto della riflessione condotta con loro e con Johan, che servirà da riferimento anche per il secondo appuntamento universitario, in programma il 5 maggio alle ore 14 presso l’Unione degli Studenti della Facoltà di Studi Letterari dell’Università di Uppsala (Engelska Parken, sala 6-0023) e, spero, anche per altri event simili qui e altrove. Inoltre, mi fornirà ulteriori spunti utili per il mio saggio narrativo sulle mie esperienze meditative e spirituali e, auspicabilmente, per un futuro saggio sulla traduzione.
Ieri notte, affacciandomi per l’ennesima volta dalla portafinestra del salotto, mi sono detto che Via Bugiardini è una strada (presente anche nel mio racconto “Alleghe” in Da luoghi lontani) che somiglia al mio modo di concepire lo spazio: un Ognidove (sempre citando l’amico Davide Sapienza) che racchiude in sé infinite varianti e sfumature – di atmosfera, di lingue e di culture in senso lato. Ultimamente, completando la prima stesura del mioromanzo post-distopico – cui ho più volte fanno cenno su questo blog e sui social -, mi sono reso conto che tutto questo vi riecheggiava abbondantemente.
Ieri, poi, rileggendo il romanzo distopico di cui l’altro è il sequel (ovvero, sono una miniserie di due romanzi), ho trovato un riferimento di un personaggio femminile a una “lingua implicita” precedente tutte le altre, e fatta della stessa essenza del suono. Ecco perché penso che studiaremusica vada di pari passo con – e alimenti – lo studio delle lingue e la pratica della scrittura. Per me, almeno, è così.
I rinterzi degli eventi non finiscono mai di stupire. L’altra sera sono ricascato – col godurioso relax che segue una giornata di scrittura, studio e cammino – su I laureati, primo film di Leonardo Pieraccioni; per la precisione, sulla scena in cui, di notte, i quattro eterni studenti “fancazzisti” si ritrovano in cucina e decidono che è giunto il momento di smetterla di perdere tempo e iniziare a vivere sul serio. In sottofondo c’è un assolo di chitarra acustica che ben sottolinea il senso di indolente rimpianto della situazione, e ti rendi conto che, anche se sono passati ventisette anni dall’uscita di quella pellicola e quei giovani attori hanno ormai i capelli grigi (o li hanno persi), quel momento è come se fosse adesso. E il merito di ciò è in gran parte delle note di quel pezzo e dell’intenzione e degli accenti con cui viene eseguito.
A seguire, mi sono nuovamente imbattuto in un bellissimo documentario sul percorso artistico della grande cantautrice canadese Joni Michell, che, spiega, si è sempre meravigliata di sentirsi dire che i suoi accordi erano “strani” – lei è famosa per l’originalità delle sue progressioni armoniche -, perché ogni singolo accordo ha un senso così com’è, in quanto serve a veicolare un’emozione specifica. Ancora una volta, dunque, quello che fa la differenza è il suono.
Viaggiare leggendo è uno dei refrain estivi più consolidati, benché messi alla prova dalle pigrizie tecnologicamente indotte degli ultimi dieci-quindici anni. Eppure, col ritorno alla vita dopo la triste stagione pandemica, si percepisce come le persone lo desiderino, esattamente come desiderano vedere i posti, viverli e incontrarci altra gente. Nel corso delle prime presentazioni di Da luoghi lontani (Arkadia Editore) in giro per l’Italia, ho avuto modo di sentirlo con chiarezza.
Da Senigallia a Firenze, da Vercelli a Torino, da Barga a Urbino, ho percepito nitidamente come spostarsi e toccare (perché mi riferisco proprio al libro cartaceo, oggetto gradevolissimo come forma e consistenza, ancor prima che per i contenuti) fossero proprio le cose che più ci mancavano.
Per me il suono è fondamentale. Posso dire che la mia intera vita si basa su suoni o, in senso lato, vibrazioni. Tutto ciò che è emozione è infatti frequenza, dunque vibrazione, e ad ogni vibrazione è possibile associare un suono. E i suoni si articolano, dialogano, si intrecciano in contrappunti e controcanti sorprendenti.
Tutto questo torna, meravigliosamente chiaro e al contempo spaventosamente complesso, sia nello studio e nella pratica delle lingue (e anche nell’atto traduttivo), sia nella scrittura di un testo narrativo.
Ci sono sempre vari livelli che si sovrappongono, varie voci e motivi che “parlano” contemporaneamente, varie regole, percezioni, livelli di incisività del lessico e delle stesse strutture sintattiche e grammaticali che interagiscono tra loro, per esprimere un significato e veicolare un’emozione. E l’emozione, nell’arte, è la base imprescindibile.
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