Sono di ritorno da Ormea, dove ho ricevuto il Premio Traduttore 2023 dagli organizzatori del Concorso Letterario La Quercia del Myr, che ringrazio ancora per avermi scelto e per la splendida ospitalità in questo bellissimo borgo del cuneese. Qui un articolouscito sulla stampa locale.
Ho condiviso la serata, oltre che con i partecipanti e i lettori del concorso letterario – del quale è risultata vincitrice assoluta la scrittrice milanese Paola Varalli col romanzo Tira mòlla e messèda (edito da Todaro) -, con gli altri ospiti invitati per vari riconoscimenti, ovvero la direttrice artistica del Festival letterario savonese “Parole ubikate in mare” Renata Barberis (in rappresentanza della saggista e psicoterapeuta Gianna Schelotto, destinataria del Premio alla Carriera e impossibilitata a essere presente) e gli scrittori Franco Faggiani (Premio Montagna) e François Morlupi (premiato come Giallista).
SPIRITO DELLA (E NELLA) TRADUZIONE/SCRITTURA/MUSICA
Ieri, a lezione dal Maestro Ganesh Del Vescovo, riflettendo su varie interpretazioni della favolosa Ciaccona in re minore BWV 1004 di Johann Sebastian Bach (che lui ha interpretato magistralmente, nella sua trascrizione, all’ultimo concerto fiorentino di una settimana fa circa), mi è venuto in mente precisamente in che senso la pratica della musica – e sopratutto di uno strumento difficile come la chitarra -, pur da dilettante qual sono, mi aiuta a calarmi ancor più a fondo e sottilmente tanto nella scrittura quanto nella traduzione.
Ogni nota, come ogni parola, comporta la necessità di “trasferire”, che è un’attività comune alla scrittura e alla traduzione, come già ho avuto modo di enucleare durante i miei incontri universitari a Stoccolma e Uppsala a maggio insieme al mio traduttore svedese Johan Arnborg. Trasferire significa veicolare da un mondo (emozionale e concettuale) a un altro (verbale o musicale). In altre parole, proprio come un chitarrista deve dare a ogni nota il giusto timbro, volume ed eventuale accento (e, fondamentalmente, il giusto spirito), uno scrittore e un traduttore devono lasciar affiorare ogni parola non solo in base al loro significato, ma alla sensazione di (pro)fondo che vogliono evocare.
Quindi ha ragione l’amico e collega Leonardo Masia scrivere che il traduttore è più un trascrittore che un esecutore strumentale, ma credo che, al contempo, sia – proprio come lo scrittore e lo stesso interprete musicale – una sorta di “medium” o di sensitivo, che deve far sentire gli altri esattamente come lui/lei sente il testo (o la musica) originale, o il suo stesso mondo interiore (quando ne è autore/autrice). Insomma, ci mette del suo, ma prima di tutto deve rendersi “trasparente”, il che non significa “assente” o privo di una propria voce, ma piuttosto un “tramite”.
L’altra sera, parlando con un vecchio amico, che tra l’altro fu il mio compagno di viaggio nella mitica “incursione” in una “freschetta” Vilnius nel febbraio 2007 (a -23 °C), che ho raccontato in Berretti Erasmus, mi è capitato di riflettere su una cosa.
A volte si pensa che il lavoro di uno scrittore comporti incontrare un sacco di gente. E in certi momenti è vero, quando si presentano i libri in giro, si fanno le residenze letterarie, insomma si viaggia e si sta a contatto con persone interessanti – e tutto questo è alimento per la creatività.
Ma il grosso del lavoro (e ancor più se si è pure traduttori!) è raccoglimento e (goduriosa, ma pur sempre impegnativa) solitudine; cura certosina per il testo, riletture infinite e – ancor prima di arrivare a questo – disposizione all’ascolto dei luoghi e dei personaggi, che sono quelli che ci raccontano la storia – anche quando l’ha scritta un altro e la stiamo solo traducendo.
Tra ieri e oggi, facendo lo slalom fra la traduzione del romanzo francese in corso e la scrittura del romanzo La via dell’altrove, ho ripreso la pratica dello svedese e del polacco ascoltati e parlati, mediante canali Youtube dedicati e conversazioni via Skype con amici madrelingua che vivono all’estero. Una sana abitudine da me acquisita nell’osceno periodo dei lockdown – forse l’unica cosa buona che ne abbia ricavato, oltre alle tante pagine scritte in quei mesi a questo tavolo (v. prima foto).
Così ho riflettuto su come, per le lingue, valga la stessa cosa che vale per la chitarra classica: le “regole” contano, ma senza la pratica (dei pezzi come delle conversazioni della vita reale) servono a poco. O meglio, possono bastare per tradurre, un po’ come quando al liceo si facevano le versioni di latino e greco antico (lingue puramente teoriche), ma non per vivere. Perché le lingue, come la musica, sono cose vive. E, in definitiva, anche la traduzione, come la scrittura, beneficia moltissimo dell’abitudine di parlare gli idiomi che ne sono oggetto: il risultato è più naturale, perché entri maggiormente nello spirito dell’ambiente da cui quel testo proviene.
L’ultima puntata del mio diario dalla residenza letteraria a Pécs coincide felicemente con la pubblicazione sul quotidiano locale “Dunántúli Napló” dell’intervista fattami qualche giorno fa dalla giornalista ungherese Réka Mohaj. Qui sotto trovate la foto della pagina del giornale, con la foto scattatami sempre da Réka nello Zsolnay Cultural Quarter, dove ho risieduto per diciassette giorni di lavoro intenso e gratificante.
Di seguito, inserisco una traduzione italiana dell’intervista che ricavo con l’aiuto dei traduttori automatici che si trovano in rete (per ora, con l’ungherese riesco a fare solo questo, ma in futuro non ne avrò più bisogno). Intanto, comunque, è uscita anche la versione online dell’intervista, sul sito del giornale.
Gli ultimi giorni, qui a Pécs, alla residenza di cui sono ospite, sono stati straordinariamente intensi. Prima di tutto sul piano del lavoro: il mio romanzo di viaggio – che si sta rivelando qualcosa di molto più complesso di quanto questa definizione potrebbe far pensare – sta prendendo corpo e forma, e già ho scritto molte pagine; inoltre, ho anche dovuto (per scadenze professionali) finire di revisionare un’ultima volta la mia nuova traduzione, il bellissimo romanzo Santuario di ombre dello scrittore cubano Amir Valle, che uscirà in Italia quest’autunno. Poi, anche sul piano degli incontri: due in particolare, con lo scrittore ungherese Tamás Horváth, che è anche presidente della Commissione Cultura del Consiglio comunale di Pécs, e con la giornalista Réka Mohay, che mi ha intervistato (in un ottimo italiano) per il quotidiano cittadino BAMA – nei prossimi giorni il pezzo uscirà sia sulla versione cartacea che su quella online.
Ho trascorso le ultime due giornate di residenza letteraria a Pécs (che non sono le ultime in assoluto, dato che resterò qui fino al 17 giugno) prevalentemente scrivendo il mio romanzo di viaggio, di cui già sapete qualcosa per le anticipazioni che vi ho dato. E visto che qui allo Zsolnay Cultural Quarter, dove risiedo, c’era un’invasione di scolaresche, ho puntato sul vicino parco Balokány Liget, che offre tavoli all’aperto, un piacevolissimo laghetto e un bar in una struttura in stile pagoda, per concentrarmi sulle peregrinazioni del mio personaggio, sospese tra una Pécs che per adesso immagina soltanto e varie altre città – in primis la Spalato che mi ospitò nel 2018 in un’altra residenza, nell’ambito del programma “Marko Marulić“.
Stanno emergendo diverse importanti assonanze. E intendo dire: assonanze linguistiche e tematiche. Prima cosa, per il poco che sto apprendendo della lingua ungherese, noto altre curiose affinità – del tutto ingiustificabili su un piano glottologico, lo so, ma utili nell’apprendimento “in parallelo” – con lo svedese. Tipo questa: nonostante il fatto che in ungherese la struttura possessiva (o, più in genere, di specificazione – insomma, il genitivo) si costruisca in genere (ma non sempre) anteponendo il possessore alla cosa posseduta (un po’ come nel genitivo sassone inglese), quando uno chiede tipo “una bottiglia d’acqua” (Egy üveg víz) la costruzione è la stessa dello svedese (en flaska vatten), ovvero l’inverso di quello che uno si aspetterebbe (cioè la “cosa posseduta” precede il “possessore”, come del resto anche in italiano), e per di più (come appunto in svedese) senza l’equivalente della preposizione “di”. Insomma, suona come “una bottiglia acqua”.
Quando scrivo, e in fondo anche quando traduco, cerco di rendermi il più possibile “tramite”, veicolo di una vibrazione-suono (sia che parta dal testo di un altro autore, come nel caso dello splendido romanzo di Amir Valle che sto traducendo dallo spagnolo e che uscirà in Italia a inizio autunno, sia che parta dal mio profondo, o forse dall’universo implicato di David Bohm – poco cambia).
Spesso quello che scrivo è veicolato dalle mie meditazioni, e spesso in sintonia con quanto emerge dalle terapie bioenergetiche che faccio col mio naturopata – che infatti ha pure ispirato il protagonista di un mio nuovo romanzo ancora inedito -, oltre che con le mie letture, i miei viaggi e i miei autonomi percorsi spirituali.
Un momento della presentazione di ieri a Bologna a La confraternita dell’uva (scattata dal libraio Giorgio)
Ieri, a Bologna, dopo la presentazione di Da luoghi alla libreria indipendente La confraternita dell’uva,insieme alla giornalista Emilia Vitulano, mentre aggiungevo la mia dedica a quelle di Carlo Cuppini e Sandra Salvato in una copia di Da luoghi lontani (Arkadia Editore), cercavo di concentrarmi su una frase significativa emersa durante quei percorsi, e non riuscivo a ricordare nulla. Poi me n’è venuta una che non corrisponde appieno a quelle “ricevute”, ma ne riproduce il senso in un modo nuovo e perfettamente in linea col mio saggio (auto)narrativo in corso di stesura.
Ieri notte, affacciandomi per l’ennesima volta dalla portafinestra del salotto, mi sono detto che Via Bugiardini è una strada (presente anche nel mio racconto “Alleghe” in Da luoghi lontani) che somiglia al mio modo di concepire lo spazio: un Ognidove (sempre citando l’amico Davide Sapienza) che racchiude in sé infinite varianti e sfumature – di atmosfera, di lingue e di culture in senso lato. Ultimamente, completando la prima stesura del mioromanzo post-distopico – cui ho più volte fanno cenno su questo blog e sui social -, mi sono reso conto che tutto questo vi riecheggiava abbondantemente.
Via Bugiardini vista dal mio salotto (foto mia)
Ieri, poi, rileggendo il romanzo distopico di cui l’altro è il sequel (ovvero, sono una miniserie di due romanzi), ho trovato un riferimento di un personaggio femminile a una “lingua implicita” precedente tutte le altre, e fatta della stessa essenza del suono. Ecco perché penso che studiaremusica vada di pari passo con – e alimenti – lo studio delle lingue e la pratica della scrittura. Per me, almeno, è così.
I rinterzi degli eventi non finiscono mai di stupire. L’altra sera sono ricascato – col godurioso relax che segue una giornata di scrittura, studio e cammino – su I laureati, primo film di Leonardo Pieraccioni; per la precisione, sulla scena in cui, di notte, i quattro eterni studenti “fancazzisti” si ritrovano in cucina e decidono che è giunto il momento di smetterla di perdere tempo e iniziare a vivere sul serio. In sottofondo c’è un assolo di chitarra acustica che ben sottolinea il senso di indolente rimpianto della situazione, e ti rendi conto che, anche se sono passati ventisette anni dall’uscita di quella pellicola e quei giovani attori hanno ormai i capelli grigi (o li hanno persi), quel momento è come se fosse adesso. E il merito di ciò è in gran parte delle note di quel pezzo e dell’intenzione e degli accenti con cui viene eseguito.
Una scena da “I laureati” (foto di pubblico dominio, da Wikipedia)
A seguire, mi sono nuovamente imbattuto in un bellissimo documentario sul percorso artistico della grande cantautrice canadese Joni Michell, che, spiega, si è sempre meravigliata di sentirsi dire che i suoi accordi erano “strani” – lei è famosa per l’originalità delle sue progressioni armoniche -, perché ogni singolo accordo ha un senso così com’è, in quanto serve a veicolare un’emozione specifica. Ancora una volta, dunque, quello che fa la differenza è il suono.
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