Stare qui (e scrivere, e tradurre)

STARE QUI (E SCRIVERE, E TRADURRE)

L’altra sera, parlando con un vecchio amico, che tra l’altro fu il mio compagno di viaggio nella mitica “incursione” in una “freschetta” Vilnius nel febbraio 2007 (a -23 °C), che ho raccontato in Berretti Erasmus, mi è capitato di riflettere su una cosa.

A volte si pensa che il lavoro di uno scrittore comporti incontrare un sacco di gente. E in certi momenti è vero, quando si presentano i libri in giro, si fanno le residenze letterarie, insomma si viaggia e si sta a contatto con persone interessanti – e tutto questo è alimento per la creatività.

Ma il grosso del lavoro (e ancor più se si è pure traduttori!) è raccoglimento e (goduriosa, ma pur sempre impegnativa) solitudine; cura certosina per il testo, riletture infinite e – ancor prima di arrivare a questo – disposizione all’ascolto dei luoghi e dei personaggi, che sono quelli che ci raccontano la storia – anche quando l’ha scritta un altro e la stiamo solo traducendo.

Stare qui

Perché anche il traduttore – con buona pace di certi editori, che a volte pensano che siamo pedine prive di significato, o di quei giornalisti che nemmeno ti nominano nei pezzi sui libri che hai tradotto – “crea” mentre scrive (non a caso, siamo retribuiti secondo la legge sul diritto d’autore, precisamente in ragione dell’apporto creativo del nostro lavoro).

Siamo antenne sempre vigili e in perenne dialogo con voci interiori ed esterne. Autonomi ma iperconnessi. Quindi, anche quando qualcuno pensa che non facciamo una sega – consentitemi il francesismo -, facciamo e ci stanchiamo.

Stiamo fermi viaggiando e viaggiamo rimanendo costantemente in un luogo interiore che è radicale visceralità e contatto con il fuoco dell’Ombra e la pace della Luce. È come una costante ginnastica. Non si va MAI in vacanza, perché la vacanza è per chi si di-verte (ovvero “fuoriesce da un centro”), mentre noi stiamo-costantemente-lì. Che è come dire “stare QUI”.