Domande e (forse) risposte

DOMANDE E (FORSE) RISPOSTE

Oggi, parlando al telefono con un vecchio amico, che è anche un mio consulente finanziario, è venuta fuori una cosa che sapevo bene, ma che prima mi dava fastidio sentire, mentre stavolta mi ha dato soddisfazione.
“Giovanni è uno che fa sempre domande difficili”, ha detto ridendo con bonomia dopo averci spiegato varie cose tecniche (eravamo in viva voce anche con mia madre).

È vero. Me ne rendo conto adesso come non mai, forse perché sto scrivendo un libro, La via dell’altrove, pieno di domande importanti, molte delle quali già so essere probabilmente destinate a restare senza risposta.

È così fin dal tempo dell’università, a Giurisprudenza, quando a un seminario sulle autorità garanti formulai il quesito di chi avrebbe controllato tali garanti (seguendo la massima latina “Quis cutodiet istos custodes”?). E lo feci senza alcuno spirito polemico: pensavo semplicemente a una sorta di Corte Costituzionale delle autorità garanti, o magari (pia illusione!) a una nuova competenza della Consulta.

Ricordo che in aula cadde il gelo e nessuno rispose alla mia domanda.

Questo in buona parte (a parte la mia vocazione letteraria e linguistica) risponde alla domanda che tanti mi fanno del perché non abbia mai ambito a diventare un avvocato o un magistrato (e dire che avrei potuto provarci, certo facendomi un gran culo, data la laurea con lode). E spiega anche perché abbia fatto da assistente al mio prof solo per un mese (a parte le traduzioni di cui avevo iniziato a occuparmi e che richiedevano tempo).
Il fatto è che a me piacevano – e piacciono – gli ambienti in cui a chi pone una domanda si dà una risposta. E il gelo non è mai una risposta.

Domande

Tempo dopo quel momento di “glaciazione”, in occasione di un seminario al quale intervennero dei noti giornalisti di livello nazionale, sempre organizzato dal mio prof, alzai la mano per porre una domanda, e lui mi ignorò bellamente, dando invece la parola a una (appunto) bella ragazza del nostro gruppo, che lesse una cosa che si era scritta prima su un fogliolino, dove citava un noto critico televisivo, e raccolse i complimenti del prof.

È anche per questo che sono diventato uno scrittore e un traduttore – e il tempo della pandemia, maledetto ma in questo utilissimo, me l’ha fatto capire molto bene -: per porre le domande giuste, che si tratti dell’interiorità dell’uomo o della società in cui viviamo. Ben sapendo che davanti a me non ci sarà il gelo né una cerchia di “uditori selezionati/graditi”, ma il silenzio meditativo di chi mi leggerà con attenzione (che, pur senza farmi ganzo, è una platea potenzialmente illimitata nello spazio e nel tempo). E questa è la cosa più importante. Perché meditare in silenzio fa intuire (a me per primo) le risposte che nessuno ci darà, portandoci a mettere a fuoco la verità, come nella foto che qui vedete, da me scattata in un paesino sperduto nel nulla in Austria, venuta mossa ma proprio per questo significativa: allude infatti a una progressiva “individuazione”, che è l’essenza del convergere della mia riflessione viscerale sull’essere umano e di quella che sto portando avanti sulla società e la storia in cui viviamo e da cui proveniamo.

Oggi vorrei far sapere a quel prof – a cui voglio bene (sinceramente) perché con me è sempre stato garbato anche in sede di esame – che le stesse domande le moltiplicherei per cento o per mille, declinandole pure in diverse lingue. Ma di tante ho già intuito le risposte.

Del resto, questa è, al di là dell’amore che mi ha dato, la più grande eredità che ho raccolto da mio padre: andare dritto al punto o, come disse il carissimo Prof. Giuseppe Panella ricordandolo dopo la sua morte, essere “lama diritta”.