Qualunque luogo

QUALUNQUE LUOGO

Qualunque luogo

Un saggio mi ha recentemente detto una frase che mi risuona dentro: “Quando la mente si acquieta, potrai vivere in qualunque luogo”.

Stamani, reduce da un sogno in cui litigavo con Alessandro Gassman (forse memore di certe sue affermazioni durante la stagione pandemica – ma alla fine, clamorosamente, facevamo pace), mi sono svegliato con un’illuminazione che mi fatto capire il senso di quelle parole, ricollegandolo al complesso della mia attività letteraria.

L’acquietarsi della mente è – e mi rifaccio ad altri spunti trasmessimi da quel saggio – il venir meno di “dubbi” e “desideri”, ovvero di quella malsana tendenza del pensiero ad anteporsi rispetto al cuore, all’intuito, alla “pancia della vita” (v. il mio articolo precedente). Attenzione, non che il pensiero non serva, ma aiuta a condurre una vita sana ed efficace solo quando lavora per attuare quanto l’intuito – canale espressivo che si palesa nel silenzio assoluto, dove alberga l’anima e si radica il Dio-in-noi – suggerisce ed emana, mentre al contrario causa dissonanze interiori fonti di nevrosi e malsane somatizzazioni quando pretende di dire “no” agli aneliti che emergono dal profondo, bloccandoli o condizionandoli.

Ora, le tendenze erronee del pensiero razionale sono appunto due: dubitare (ovvero, anche qui, non il proficuo mettere in discussione i cosiddetti “sani principi” dell’autorità costituita o della propaganda politica, ma il lambiccarsi inutilmente, il rimuginare) e desiderare, che di per sé non è sbagliato, perché significa comunque intuire qualcosa da cui ci si sente attratti e dunque iniziare il percorso che potrà condurci lì, ma può tradursi in uno sforzarsi eccessivo, in un “fissarsi” su quella meta, in un sentire la mancanza di – vedi l’etimologia del termine -, che porta la mente a irrigidirsi e il cuore a chiudersi, con le conseguenze negative di cui sopra.

Al contrario, in assenza di questi due stati mentali, l’intuito, e quindi il cuore, e quindi l’anima, ha campo libero, e l’identità, il Sé, di cui il pensiero è solo un’imperfetta proiezione, si espande, fino a poter “vivere in qualunque luogo”.

Tutto questo mi è arrivato così, all’improvviso, “senza pensare”. E, subito dopo, ho intuito che cosa significhi “qualunque luogo”. Può certamente voler dire un luogo fisico, perché è vero che ultimamente – ma anche in passato -, viaggiando molto, mi sono accorto che quanto più la mente è quieta e l’holos corpo-mente-anima è centrato, allineato e aperto, tanto più la strada scorre, gli impicci e gli imprevisti dell’itinerario sono facili da superare e tutto riesce meglio – proprio come un musicista o uno sportivo eseguono meglio il gesto tecnico se si trovano in una condizione di pace interiore. Ma “qualunque luogo” significa anche altro: nello specifico, come scrittore, abitare tutti i possibili luoghi, geografici e intimi, che la narrazione, intrecciata con la vita, può suggerire.

Qualunque luogo
I miei libri, con al centro l’olio essenziale di arancio amaro, foriero di gioia e solarità

In questo senso, ho riconsiderato, in una rapida carrellata, tutti i luoghi e le situazioni della mia produzione narrativa: dalla molteplicità di ambientazioni della mia quadrilogia distopica Internet. Cronache della fine (Galaad Edizioni) – che inizia sulle sponde del Lago di Lucerna, per poi articolarsi tra Berlino, Cracovia, Stoccolma, Firenze, Amsterdam, New York e tutta la East Coast degli Stati Uniti, il Marocco più selvaggio, Barcellona, Dresda, e poi ancora il Portogallo rurale, la parte più interna e pietrosa della Puglia, le coste dalmate e la città-fulcro dell’Erzegovina Mostar – al mio romanzo psicologico Viale dei silenzi (Arkadia Editore), che passa dalle tinte tra il grigio e il pastello di una Varsavia cosmopolita al fascino “bowieano” (o “kraftwerkiano”) del quartiere berlinese di Schöneberg di notte, per approdare infine al colorato entusiasmo vitale della Dublino di oggi e alla pace rarefatta della contea irlandese del Donegal; continuando poi con i percorsi (ampiamente autobiografici) di Berretti Erasmus. Itinerari di un ex studente nel Nord Europa (Fusta Editore), che parte nelle Midlands inglesi dei miei studi universitari e poi tocca Amsterdam, Vilnius, nuovamente l’Irlanda dei miei studi linguistici, la Cracovia dei miei giorni più tragicamente felici e la Svezia (proprio la Gotland di cui oggi tanto si parla) del mio peregrinare per residenze letterarie; fino ad approdare a Da luoghi lontani (Arkadia Editore), l’ultimo nato, dove i miei altrove sono confluiti, insieme a quelli di Carlo Cuppini e Sandra Salvato, in un maelström carico proprio delle molteplici risonanze su cui stamani voglio soffermarmi.

Si tratta delle eterotopie del filosofo Michel Foucault (di cui abbiamo parlato con il relatore Anthony Fico nel corso della presentazione di Da luoghi lontani dello scorso 20 giugno alla libreria “Wojtek” di Pomigliano d’Arco – qui sotto trovate una registrazione audio di Filippo D’Eliso, e perdonate il refuso mio e di Anthony, capitato parlando a braccio: sono “eterotopie”, non “eterotipie”), ovvero luoghi aperti su (e specchiantisi in) altri luoghi, reali o irreali, in un gioco a specchio che apre possibilità potenzialmente infinite.

L’audio di parte della presentazione di “Da luoghi lontani” (grazie all’amico poeta e musicista Filippo D’Eliso per averla registrata)

Tutti i nostri luoghi, in Da luoghi lontani, sono infatti come porte dimensionali di accesso a un Oltre di cuore-e-pensiero, tale che si viene a creare una sorta di percorso interno – che procede anche per parole-chiave reperite spontaneamente, come ha giustamente sottolineato Lia Amen nella sua bellissima recensione – che collega i vari racconti in una visione unitaria, e direi quasi “frattale”. Ovvero, ogni luogo, che sia Alleghe (sulle Dolomiti venete), Urbino, Spalato, l’Emilia della lotta partigiana, Venezia, Londra, lo sperduto Fichi Cani in Sardegna, New York, Firenze o l’Australia, rimanda a un altrove interiore, ampio quanto tutto lo spazio (e quindi, in sé, “qualunque luogo”) e quanto il tempo, che, come abbiamo visto, in definitiva non esiste.

In altre parole, ogni luogo, passando per (o intersecando) il centro del nostro essere (il Sé), diventa in potenza qualunque luogo (“presente”, “passato” o eventualmente “futuro”), e quindi diventa (per citare un bel libro dello scrittore, traduttore e amico Davide Sapienza) “Ognidove”. Per converso, qualunque luogo può essere abitato dalla persona centrata nel Sé. In altre parole, la sua casa è l’atemporale, ovvero l’Eterno, che può, di volta in volta, focalizzarsi “qui” o “lì”, “ora” o “allora”, ma alla base di tutto, proprio come lei (e come Dio-in-lei, v. La nube della non conoscenza), fondamentalmente è.

Una foto della presentazione di “Da luoghi lontani” a Pomigliano d’Arco (da sinistra, io, il relatore Anthony Fico e il libraio della “Wojtek” Ciro Marino) (foto di Filippo D’Eliso)

Da qui l’intuizione che mi è arrivata stamattina, che si estende anche a ciò che sto scrivendo: il sequel di un romanzo distopico ambientato in un punto imprecisato oltre il Circolo polare artico (e già finito), che costituisce il mio primo romanzo post-distopico e si svolge principalmente a Stoccolma (alla Svezia sono particolarmente legato anche per via del fatto che ne studio la lingua, dalla quale ho recentemente iniziato a tradurre in italiano), e il sequel del mio primo noir (ambientato tra Firenze e la Maremma), che si svolgerà tra Follonica e l’Umbria – luoghi a me cari non solo per averli visitati con piena soddisfazione di corpo e anima, ma per averci (parlo della Maremma) presentato diversi miei libri, grazie all’amico Pasqualino Casaburi. Recentemente, poi, ho anche iniziato un nuovo libro di viaggio che oscillerà tra i luoghi della carta geografica e quelli dello spirito (intendendo per questi ultimi appunto le eterotopie di cui sopra, ovvero i riflessi interiori del trovarsi qui o e, per converso, la sincronicità del venirsi a trovare per l’appunto in certi luoghi che risuonano con le esperienze interiori che si stanno vivendo). E ho anche pensato ai miei manoscritti attualmente inediti e in visione a vari editori – uno ambientato tra l’Appennino e l’Irlanda, uno tra Firenze, l’Irlanda e New York, uno di racconti ambientati tra Toscana e Irlanda (avrete capito che l’Irlanda è la mia seconda casa).

Tutto richiama tutto, in un gioco a specchi che è la quintessenza dell’altrovità (mi si passi il neologismo) in cui consiste non solo l’eterotopia, ma l’essenza stessa del pellegrinaggio terreno. Infatti, ogni singola esperienza nel macro-contenitore dello spazio, attraversato da correnti gravitazionali, onde di energia solare, effluvi di natura ed energie sottili e moti dello spirito che scaturiscono dal Sé, s’intona spontaneamente (se la mente si acquieta) a delineare un percorso in cui ogni momento significa intensamente e interagisce con gli altri, in una sorta di correlativo interiore del fenomeno dell’entanglement quantistico.

Ogni situazione reale, così, può diventare fonte di un’ispirazione artistica, emozionale o spirituale consonante, che, in un certo senso, può considerarsi l’opposto del desiderio, perché non è il sentire la mancanza di qualcosa, ma il vivere centrati e perciò naturalmente predisposti a ricevere quello che s’intonerà (che risuonerà) con noi. In altre parole, stiamo parlando del vivere in uno stato “zen” perfettamente corrispondente alla citazione evangelica del vivere come gli uccelli del cielo e i gigli del campo (v. qui).