SILENZI D’ESTATE
Sono tornato da poco dalla prima, intensa fase di promozione del nuovo libro Da luoghi lontani (Arkadia Editore), che ho scritto insieme a Carlo Cuppini e Sandra Salvato, e mi trovo a entrare in una stagione di caldo e silenzi d’estate che invita al raccoglimento, a godere del presente e a viaggiare con la mente e l’anima, prima di risalire in macchina e partire per altre destinazioni.
L’idea di questo articolo mi è venuta mentre, due giorni fa, facevo il mio abituale giro a piedi per il quartiere dove abito, Ponte a Greve, sospeso esso stesso tra i silenzi (e a volte i rumori) di due “zone diverse”, Firenze e Scandicci, e dunque in sé un po’ “viaggio tra mondi”.

In passato, tornando dopo un bel periodo fuori, mi giravano abbondantemente le scatole per il fatto di dovermi reimmergere nella solita quotidianità ripetitiva, spesso ammorbata dalle pressioni del pensiero legate alle prove della vita. Oggi, anche grazie al brillante lavoro di ricentratura e alleggerimento condotto con la guida di uno straordinario catalizzatore, il naturopata (e grande musicista) Andrea Cappelletti – qui una mia vecchia ma sempre attuale intervista a lui -, posso dire che non è più così. Più avanti vado in questo percorso, più mi rendo conto che tutto è relazione, e che nelle cose è nascosto un percorso chiaro e luminoso, una vibrazione di musica pura e benefica, che attraversa perfino le regioni più oscure (soprattutto in tempi di follia e abuso del diritto come quelli che abbiamo recentemente vissuto e che ci auguriamo siano finiti).
Il qui di adesso, ovvero questa singolare intersezione di spazio e tempo che è il momento nel luogo – o il luogo nel momento – presente, non ha una “grana” diversa da quelli precedenti e quelli seguenti. Anzi, è parimenti immerso in un flusso di costante presente, che risuona incessantemente con i momenti più belli e le sensazioni più nette del passato e con quelle che stanno già affacciandosi dal futuro. Questo, fondamentalmente perché, ormai lo sappiamo (e ben ce lo ricorda Carlo Rovelli), secondo la fisica quantistica il tempo non esiste, ma in qualunque sistema esiste solo un fenomeno irreversibile, la dispersione termica legata all’aumento di entropia (caos, disordine). Il calore perso non si recupera; indietro non si torna. E la nostra mente questa irreversibilità la percepisce come una sequenza di “prima” e di “dopo”, chiamandola “linea del tempo”.

Poi, però, a volte capita di rendersi conto – ce lo insegna Marcel Proust con la sua celeberrima madeleine – di come le percezioni si ripresentino, aprendo squarci improvvisi su cose del passato che sentiamo nuovamente qui. E allora pensiamo che, dopo tutto, il tempo non sia una retta, ma un circolo eternamente ritornante. Ora, però, viene fuori che la variabile tempo, nelle equazioni più evolute, scompare, e rimane solo lo spazio, l’universo, un enorme scatolone pieno di tutto, qui più denso, lì più vuoto, ove più, ove meno piegato, a seconda della massa dei corpi e della forza di attrazione gravitazionale che questi esercitano, e che per l’appunto accelera o rallenta (a seconda della sua minore o maggiore intensità) la velocità di ciò che percepiamo come lo scorrere del tempo, ovvero l’aumento dell’entropia.
Dunque una possibilità ce l’abbiamo, ed è per l’appunto quello di cui ho fatto esperienza ultimamente nell’attraversare il ponte sul torrente Greve: renderci conto che viviamo costantemente sulla cresta di un’onda che non finisce mai di rampare, e insieme costantemente si frange, perde spuma, lasciando andare parti di sé mentre avanza. Scegliere, insomma, se identificarci con quella schiuma che si sfilaccia e cade o con il corpo vigoroso dell’acqua che procede.
Attenzione, prima ho detto che la nostra mente percepisce come scorrere del tempo l’irreversibilità dell’aumento dell’entropia e della dispersione termica che lo accompagna. Intendevo la mente razionale. Il punto è che “chi siamo”, in definitiva, non è – al contrario di quello che il pensiero occidentale di formazione cartesiana sostiene – ciò che pensiamo. Il pensiero ne è solo un’imperfetta manifestazione. Utilissima e preziosa in sede pratica, certo, ma potenzialmente perniciosa se fa come il carro che vuol mettersi davanti ai buoi. Ce lo insegnano le filosofie orientali, sondate in profondità dal da noi citato nell’epigrafe di Da luoghi lontani Fritjof Capra, con il suo celeberrimo Il tao della fisica, ma anche la mistica cristiana (penso a La nube della non conoscenza di un Anonimo inglese del XIV secolo).
Il pensiero razionale vede solo la dispersione termica, l’unico processo irreversibile, anche perché reso evidente dai segni fisici del passare delle cose. C’è però una parte di noi intuitiva, radicata nel nostro profondo, il Sé, che è – lui sì – quello che siamo veramente, perché è il “luogo” dove una sapienza atavica conosce il nostro percorso al di là di qualsiasi possibile dubbio e perfino dei nostri desideri. Lì vediamo le cose nella loro essenza eterna, nel loro essere già qui – e più specificamente cogliamo l’eternità del concetto di relazione, che lega ogni cosa che esiste in natura.
Nell’universo, tutto – sempre secondo le risultanze della fisica quantistica – esiste in funzione di qualcos’altro, ovvero in quanto percepito da un osservatore. Tutto è relazione, dunque tutto è (platonicamente) eros, “tensione verso”, e anche “amore” in senso agapico (amore gratuito e assoluto). Le cose sono in quanto collegate (tutte) con tutto, e questo Tutto, lo spazio, ovvero l’universo, è in quanto è e “non è” in quanto “non è” (ripensando a Parmenide, ma anche lasciandosi sedurre dai potentemente suggestivi scenari aperti dagli orizzonti della materia e dell’energia oscura, che formano una parte importantissima del cosmo, e che – a quanto pare – sono ciò che lo “tiene insieme”).
Allora, se tutto è collegato e se è possibile (ora lo so) vivere sulla cresta di quell’onda senza cadere nell’illusione che l’unica realtà sia il disfacimento della dispersione termica/tempo, e tenere sempre a mente (anzi, a mente e cuore) che siamo fondamentalmente fuori dal tempo e che chi veramente siamo, nel Sé, è un’inestricabile fusione di Io-Tu, radice dell’amore che ci lega all’altro, fatta della stessa pasta del Dio-in-noi -, i ricordi “recenti” – come quelli “lontani” – diventano un alimento e uno spunto attualissimo, come corde di uno strumento che continuino a vibrare senza sosta.
Carlo Cuppini, coautore di Da luoghi lontani, nel suo racconto conclusivo del libro, “La porta del cielo”, evoca il dialogo platonico Fedone, e in particolare la riflessione che Socrate vi conduce sull’anima, che non è come la musica prodotta da uno strumento, che ne dipende, ma al contrario regola le passioni che animano il corpo, dunque lo precede e non muore con esso, ovvero è immortale. Ecco, proprio la pratica della chitarra, unita alle ultime riflessioni, mi trasmette un’idea che prova a radicalizzare ulteriormente il pensiero socratico-platonico: e se perfino la musica precedesse lo strumento, che infatti ogni volta riflette diversamente quello che l’esecutore ha nel cuore, e ci fa capire molto su chi lui è? La musica promana tramite lo strumento, non da esso, che infatti è solo strumento. Essa proviene invece dal Sé, da quella regione di nuda identità, dove il dialogo con l’Altro(ve) trova espressione nella sua forma più alta, profonda e risonante. Non a caso, come scrittore io stesso non mi sono mai sentito “autore”, ma appunto “tramite”. Certo, lo strumento, ovvero la personalità, la sfaccettatura particolare di chi siamo e che ci rende unici e irripetibili, come la struttura di uno strumento rende unico il suono, fa sì che ognuno di noi, quando scrive o semplicemente fa le cose di ogni giorno, sia diverso dagli altri. Ma lo è precisamente per come tutto ciò che vive interagisce con il suo magma interiore, alimentando il suo bagaglio di esperienze e lasciandolo fluire costantemente nel presente, così da alimentare l’onda di cui sopra.

Il punto è non lasciare che gli intoppi verificatisi lungo la strada ingolfino ipertroficamente la mente razionale, saturandola di paure e tensioni. Allora si possono aprire scenari meravigliosi di amore e di speranza, che risuonano con tutti i luoghi che visitiamo e le persone e gli altri esseri viventi che conosciamo, e interagiscono con i nostri processi creativi e anche con la pratica consapevole del lavoro, dello sport, della musica e dell’arte in genere, del cammino e della spiritualità, e tanto nei silenzi estivi di campagna o di mare quanto tra i rumori metropolitani.
Questo, almeno, è il mio “stato dei lavori”. Le recenti peregrinazioni, come dicevo nel mio ultimo post, cui si sono aggiunte le bellissime presentazioni di Montespertoli, Pistoia, Grosseto e Pomigliano d’Arco, intervallate da percorsi in auto attraverso l’Italia che hanno costeggiato il Tirreno e l’entroterra toscano, laziale e campano, come prima avevano fatto con l’Adriatico nel tratto marchigiano e (lì in treno) con l’Emilia, la Lombardia e il Piemonte, mi hanno messo a contatto con luoghi e persone straordinari, di cui voglio restare per sempre amico, come già in questi quasi tre anni di oscena gestione pandemica mi è successo con anime affini, contrarie come me agli abusi del governo e alle sue ripetute violazioni della Costituzione e dei fondamentali diritti umani.
Tutto questo, ma perfino il rapporto ormai consolidato ma solo ultimamente realizzato nella sua quintessenza adulta – credo sia la cosa più difficile – con mia madre (e, sia pur in absentia sul piano fisico, con mio padre), è emerso attraverso le curve e le difficoltà del viaggio. Oggi so profondamente chi sono e chi e cosa amo, e questo è tutto ciò che conta. Non ho più rimpianti, anche se nella vita ho perso molto. Ma molto è anche quello che ho (ri)trovato, e l’ispirazione che anima i miei passi, siano questi in giro per Ponte a Greve, tra il salotto o il giardino pubblico dove scrivo a mano e lo studio dove batto al computer i miei romanzi e racconti, edito e traduco, o per le strade d’Italia, d’Europa o del mondo. L’importante è stare nel cuore di questi silenzi che parlano e si parlano, e che non sono solo una parola-chiave per tornare (spero) a far parlare del mio romanzo Viale dei silenzi (uscito, ahimè, subito prima della pandemia), ma l’essenza profonda del terreno cosmico – riflesso dal Sé – su cui s’innesta la nota particolare che ci caratterizza come persone e ci pone in dialogo con l’Altro.
Colgo l’occasione per annunciare – per ora in termini generici – le prossime presentazioni di Da luoghi lontani: il 20 luglio saremo a Grosseto per un evento serale presso le mura urbane organizzato dalla Pro Loco e condotto dall’operatore culturale e amico Pasqualino Casaburi, e il 23 andremo a Massarosa presso il vivaio “I Campi di Ninfa” dell’altra amica Fiammetta Barsanti.