TRADUZIONE, LINGUE E SUONO
I rinterzi degli eventi non finiscono mai di stupire. L’altra sera sono ricascato – col godurioso relax che segue una giornata di scrittura, studio e cammino – su I laureati, primo film di Leonardo Pieraccioni; per la precisione, sulla scena in cui, di notte, i quattro eterni studenti “fancazzisti” si ritrovano in cucina e decidono che è giunto il momento di smetterla di perdere tempo e iniziare a vivere sul serio. In sottofondo c’è un assolo di chitarra acustica che ben sottolinea il senso di indolente rimpianto della situazione, e ti rendi conto che, anche se sono passati ventisette anni dall’uscita di quella pellicola e quei giovani attori hanno ormai i capelli grigi (o li hanno persi), quel momento è come se fosse adesso. E il merito di ciò è in gran parte delle note di quel pezzo e dell’intenzione e degli accenti con cui viene eseguito.
A seguire, mi sono nuovamente imbattuto in un bellissimo documentario sul percorso artistico della grande cantautrice canadese Joni Michell, che, spiega, si è sempre meravigliata di sentirsi dire che i suoi accordi erano “strani” – lei è famosa per l’originalità delle sue progressioni armoniche -, perché ogni singolo accordo ha un senso così com’è, in quanto serve a veicolare un’emozione specifica. Ancora una volta, dunque, quello che fa la differenza è il suono.
Proprio come la musica, anche le parole sono fatte di suoni, e così le lingue che ne sono formate. Ogni suono ha una frequenza caratteristica, determinata dalla sua altezza, dal suo volume e dal suo timbro. Tutti questi tratti concorrono a individuare uno spettro vibrazionale che – in un universo in cui tutto si definisce in relazione a qualcos’altro – può essere riconosciuto da un ascoltatore come evocativo di una certa emozione. Le emozioni, infatti, sono esse stesse frequenze energetiche più o meno armoniche, ovvero hanno uno spettro vibrazionale cui può corrispondere una (o un insieme di) sonorità. Ecco perché, nel dolore, ascoltare una musica in particolare fa star meglio: perché porta a galla uno stato d’animo disarmonico e, così facendo, lo smussa e addolcisce, riarmonizzandolo.
Lo stesso, appunto, vale per le parole. Questa è la ragione per cui, quando scrivo, do grandissima importanza non solo al loro significato, ma anche al loro suono e a come s’intona con quello delle altre, venendo a formare, nel quadro del discorso, una continuità melodica che parli, oltre che alla mente, al cuore e alla pancia del lettore.
Una riflessione analoga può essere fatta per le lingue, e dunque per la traduzione. Traduco professionalmente da vent’anni, e il mio rapporto di autentico eros (leggi “attrazione, tendere verso”, come ci insegna zio Platone) con le lingue inizia da ancor prima. Ricordo di aver cambiato scuola media perché ero stato messo in una sezione di francese, ma volevo l’inglese come prima lingua straniera – oggi, peraltro, amo molto anche il francese, come l’appassionante esperienza di tradurre l’autobiografia di Arsène Wenger sta a testimoniare.
Ogni lingua, credo, ha un suo complesso repertorio di vibrazioni, adatto ad accogliere – e rendere – meglio certe emozioni. Tanto per fare un esempio terra terra, l’italiano è adattissimo per il melodramma, laddove l’inglese si presta perfettamente al pop-rock, in gran parte grazie al suono secco di tante sue parole monosillabiche.
Di tutti questi aspetti e di molti altri deve tener conto un traduttore. Nel corso degli anni, aggiungendo via via nuove lingue di studio e lavoro – in ordine cronologico, portoghese, spagnolo, francese, polacco e svedese -, me ne sono reso sempre più conto. Il “salto” dalle strutture e dallo spettro semantico-emozionale di ognuna di esse all’italiano è diverso, proprio come giocare a tennis su terra battuta, erba o cemento non è assolutamente la stessa cosa.
Io sono un linguista molto istintivo, oltre che, com’è ovvio, attento alle caratteristiche grammaticali, sintattiche e stilistiche di ogni testo (in ogni lingua). E concordo in pieno con un valente collega italo-sudafricano, Christopher Fotheringham, che in una nostra recente conversazione online ha usato l’espressione “far cantare il testo” (make it sing). Questo dev’essere lo scopo di un traduttore, e lui può dirlo con coscienza di causa, avendo una ricca esperienza anche come docente universitario di Traduzione. Bisogna immaginare di avere in mano, a seconda dei casi – cioè, appunto, dei testi e delle lingue – un violino, una chitarra, un’arpa o un altro strumento (mi limito a quelli a corde, a me più consoni), e quindi adattare la tecnica atta a produrre il suono – anzi, i suoni – onde avere un risultato intenso e soddisfacente, che arrivi al lettore/ascoltatore (anche nella lettura solo con gli occhi, infatti, il “suono” delle parole giunge al cervello creando una sorta di musica implicita).
Il mio percorso è stato diverso, ma in un certo senso consonante con quello del collega, perché, pur mancandomi la parte di insegnamento teorico della traduzione, i miei studi linguistici sono stati radicati nella teoria e nella sua immediata applicazione pratica traduttiva fin dai tempi del liceo classico, con lo studio “matto e disperatissimo” di latino e greco antico. Poi, venendo alla parte letteraria del mio itinerario, ho iniziato come saggista, occupandomi, come sapete, di J.R.R. Tolkien (tra l’altro, sudafricano anche lui), cui ho dedicato vari saggi (v. qui), e in particolare la raccolta bilingue, da me curata e tradotta – nelle due direzioni – e alla quale ho contribuito con un mio articolo, Tolkien. Light and Shadow – La Luce e l’Ombra (Kipple Officina Libraria).
Tolkien, per l’appunto, era prima di tutto un filologo e un cultore delle lingue antiche, e tutto il suo Legendarium nasce precisamente da questa fascinazione (mi riferisco in particolare alla sua invenzione della lingua elfica, oltre che all’intuizione, contenuta in Ainulindalë, della creazione del mondo da parte degli Ainur- intelligenze angeliche – mediante un canto intonato sulla base di un tema lanciato da Eru, l’Uno). Così, mentre la sua arte mi insegnava – penso soprattutto al saggio On Fairy-stories (in italiano, contenuto nell’edizione Bompiani Albero e foglia) – l’importanza di far sentire lì il lettore mediante l’effetto “subcreativo” della narrazione (Evasione-Ristoro-Consolazione), la sua sensibilità per le lingue mi confermava nella mia passione per gli idiomi stranieri. Ecco perché ho iniziato a scrivere come narratore mentre cominciavo a tradurre in modo professionale.
In altre parole, per me la traduzione è sempre stata sospesa tra una sfera razionale – quella che si sposa particolarmente bene con la dimensione del saggio (storico, giornalistico o accademico che sia) – e una intuitivo-sensitiva, che è appunto quella cui pertiene la narrativa, oltre naturalmente alla poesia. Non a caso, se nei primi anni ho tradotto soprattutto testi (parlo anche di libri) di argomento legale e commerciale, coerentemente con la mia formazione universitaria giuridica, in seguito sono passato a testi di natura letteraria (e tra questi ricomprendo anche saggi storico-biografici molto intensi, che si leggono come romanzi, v. qui).
In tutto questo, si è poi aggiunto un altro fenomeno, progressivamente accentuato dai viaggi e dall’uso pratico delle lingue (temi che ricadono nel mio libro autobiografico Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa, edito da Fusta). Quello, in fondo, più strettamente connesso al loro suono, e che tocca più nel profondo la persona che le utilizza con passione. Intendo dire che le lingue seducono proprio perché la loro gamma di suoni-emozioni si ricollega direttamente alla storia – o meglio, alle storie – dei popoli che le hanno parlate e scritte per secoli. Il polacco e lo svedese, le mie “ultime” lingue, per me sono intensamente Cracovia, Varsavia, Danzica, Stoccolma, Malmö o l’isola di Gotland. Quei luoghi (più qualche ragazza che ho amato di quelle parti) me le hanno “iniettate”, e grazie a loro mi sono imbevuto di quelle culture e continuo a farlo.
Le lingue, poi, presentano connessioni – anche storiche – tra loro, e dunque affinità, schemi ricorrenti o, al contrario, nette differenze, che comparativamente aiutano lo studio e, soprattutto, ti immergono non solo nella cultura di un paese, ma nell’Ognidove di cui scrivevo pochi giorni fa. Per esempio, le lingue slave (io conosco il polacco) hanno gli aspetti verbali, cioè – per la maggioranza dei verbi – una forma imperfettiva (che rende l’azione nel corso del suo svolgimento) e una perfettiva (che indica l’azione compiuta). Si tratta di uno degli scogli più importanti per chi, da italiano, approccia il polacco, perché da noi una cosa simile non esiste. Eppure, in qualche modo sì che esiste. Per esempio: il verbo “fare”, nell’aspetto imperfettivo, è robić, mentre in quello perfettivo è zrobić. La differenza si coglie particolarmente bene nel passato: nell’imperfettivo, robiłem (al maschile) o robiłam (al femminile – ecco tra l’altro un’altra disomogeneità rispetto all’italiano: una coniugazione diversa in un tempo semplice per il maschile e il femminile), che significa “facevo/stavo facendo”, mentre nel perfettivo è zrobiłem (maschile) o zrobiłam (femminile), ovvero “feci/ho fatto”. Ora, in italiano diciamo le stesse cose, ma ricorrendo a una molteplicità di tempi verbali semplici e composti che in polacco non ci sono (l’imperfetto o la struttura fraseologica “stare + gerundio” per l’imperfettivo, e il passato remoto o il passato prossimo per il perfettivo).
Tutto questo lo si capisce molto più velocemente facendo un raffronto con l’inglese, dove l’aspetto imperfettivo è reso dai continuous tenses (al passato, il past continuous, cioè “I was doing”), e quello perfettivo si “spalma” sulla forbice past simple/present perfect, cioè I did/I have done, che poi presenta ulteriori specificità mancanti nel polacco, che dipendono dalla circostanza che l’azione sia stata compiuta in una frazione di tempo chiusa nel passato – tipo yesterday – o che finisce nel presente – tipo today). Vediamo bene come il gioco delle corrispondenze e delle differenze aiuti a cogliere la complessità delle situazioni e la ricchezza delle sfumature che lo strumento linguistico può rendere e “far sentire” a chi legge o ascolta. Ovvero, le pressoché infinite varianti dell’Ognidove.
Così torniamo al punto iniziale: il suono come veicolo per accedere a una dimensione fuori dal tempo. Ah, già, ma abbiamo detto che il tempo non esiste. Allora dov’è che ci porta il suono, che si tratti di musica, di parola letteraria o dell’alone musical-parlato di una lingua? Dove si radica e che cos’è, in definiva, l’Ognidove? La mia risposta è: (nel)la sostanza più profonda e reale dell’unica cosa che esiste, lo spazio, così misterioso forse perché formato in gran parte da materia ed energia oscura, di cui ancora sappiamo ben poco, e dunque spalancato su un orizzonte che, per quanto si possa positivisticamente tentare di eludere il punto, fa tutt’uno con l’insondabilità (che non vuol dire “inesperibilità”) del nostro Profondo, dove il Sé lambisce e si riversa nell’Eterno.