Lingue e vocazione

LINGUE E VOCAZIONE

Ieri notte, affacciandomi per l’ennesima volta dalla portafinestra del salotto, mi sono detto che Via Bugiardini è una strada (presente anche nel mio racconto “Alleghe” in Da luoghi lontani) che somiglia al mio modo di concepire lo spazio: un Ognidove (sempre citando l’amico Davide Sapienza) che racchiude in sé infinite varianti e sfumature – di atmosfera, di lingue e di culture in senso lato. Ultimamente, completando la prima stesura del mio romanzo post-distopico – cui ho più volte fanno cenno su questo blog e sui social -, mi sono reso conto che tutto questo vi riecheggiava abbondantemente.

Lingue
Via Bugiardini vista dal mio salotto (foto mia)

Ieri, poi, rileggendo il romanzo distopico di cui l’altro è il sequel (ovvero, sono una miniserie di due romanzi), ho trovato un riferimento di un personaggio femminile a una “lingua implicita” precedente tutte le altre, e fatta della stessa essenza del suono. Ecco perché penso che studiare musica vada di pari passo con – e alimenti – lo studio delle lingue e la pratica della scrittura. Per me, almeno, è così.

In passato qualcuno mi ha detto che chi studia molte lingue non arriva a essere perfetto in nessuna: vero, pensavo e penso ancora, ma chi se ne frega? La perfezione non esiste, nemmeno nella lingua madre (perfino in italiano continuo a imparare cose, come che si dice “penso a lei/lui”, ma non “le/gli penso”, bensì “la/lo penso”, perché quell'”a lei/lui” non è un complemento di termine, ma un complemento di moto a luogo figurato, v. la Crusca). L’approccio, in tutto, non può che essere socratico, ovvero volto a estrarre continuamente verità dal confronto, dalla comparazione, dal dialogo, nella coscienza di “non sapere”.

Adoro la metafora del decathlon, dove non si eccelle in nessuna disciplina (essere recordman in una comporterebbe il dover trascurare le altre), ma si fa bene in tutte. È lo stesso spirito con cui studio chitarra classica da privatista: senza puntare alla perfezione, ma godendo (eccome, se si gode!) del momento in cui il suono viene prodotto.

Con le lingue funziona allo stesso modo: il suono fa godere, e quella goduria cerco di trasfonderla anche in ogni riga che scrivo, e mi ci inzuppo come un biscotto godurioso anche mentre traduco, che sia dallo spagnolo (come adesso con un bellissimo romanzo di Amir Valle), dallo svedese (come di recente con l’ottimo libro di Sanja Särman in prossima uscita) o dall’inglese e dal francese, lingue con cui presto tornerò a lavorare – o con quelle che purtroppo capitano di rado, come il portoghese e il polacco, o come capiterà in futuro con altre che ho ripreso a studiare, sia pur a piccole dosi per volta, come il tedesco, l’ungherese e – nei sogni, ma neanche più di tanto, il serbo-croato e il ceco.

Una delle cose che ho sviluppato nell’infame periodo pandemico – sul quale nessuno creerà mai nessuna “giornata della memoria”, perché è più facile istituirle (e giustamente!) sui fatti di ottant’anni fa e poi chiudere gli occhi davanti agli abusi e agli orrori del recente passato – è stata proprio la pratica costante del suono, attraverso le lingue, la musica e la scrittura.

Credo che, a forza di dedicarsi a queste discipline – vere e proprie pratiche meditative – si arrivi a una visione circolare delle cose e dello stesso spaziotempo (non a caso, i miei recenti interessi di fisica quantistica, sui quali mi soffermo anche nel mio saggio narrativo in corso di stesura), non così diversa da quella della lingua aliena appunto “circolare” del film Arrival di Denis Villeneuve. E tutto questo, per me, è andato di pari passo con l’approfondimento dei miei percorsi interiori, e la creazione di una sorta di “aura protettiva” dalle intrusioni esterne – che proprio durante la pandemia (e infodemia) aveva raggiunto il massimo dell’a propria ‘invasività.

Realizzare il Sé, ovvero onorare la vocazione che ci collega al divino-in-noi, significa separarsi dalle energie tossiche e armonizzarsi con quelle più elevate, e quindi aprirsi alle interazioni con gli spiriti autenticamente affini.
Credo che questa sia la rivelazione più importante, che toglie ogni “velo” che la mente, finché è soggetta alle sollecitazioni sbagliate, prova a imporre.