PÉCS SOTTO LA PIOGGIA
Arriva la pioggia a Pécs e la scrittura si fa più intima, sempre ai tavolini del caffè del Teatro delle Marionette (Bóbita Bábszinház), mentre fuori si alza il vento e iniziano a cadere gocce più fitte. Sto entrando in una dimensione fuori dalle normali coordinate spazio-temporali, che è precisamente quella in cui sto ambientando il mio romanzo di viaggio. Al tempo stesso, mi accorgo che tutto questo rientra nel mio ambientarmi qua. Già ho parlato di come l’indecifrabilità (per adesso) della lingua ungherese abbia creato una sorta di bolla intorno a me. Ma, giunto al quinto giorno di residenza, posso dire che le persone che incontro, gentili e riservate, conciliano la mia concentrazione e mi accolgono con un senso di rispetto che somiglia un po’ al “ritenuto” delle note musicali: dietro, percepisci un’intensità che ti si rivelerà quando scoprirai certi codici, linguistici ma non solo. E la cosa mi piace. Certo, al caffè c’è stato un gran movimento di ragazzi e ragazze – coinvolti, credo, in qualche spettacolo o attività educativa legata al teatro. Ma niente mi ha veramente disturbato, a parte un inopinato calabrone, che per qualche minuto ha risvegliato la mia fobia per gli insetti dotati di pungiglione, venendo poi allontanato dal barista.

Alla fine ho scritto un altro capitolo del romanzo. Quindi, con la scusa di qualche acquisto, sono uscito per un giro negli immediati dintorni. Con la valigetta del computer infilata nello zaino e la borsa a tracolla, anche un paio di chilometri sono un buon esercizio. Aveva smesso di piovere e si stava affacciando il sole. Così il circondario dello Zsolnay Cultural Quarter (Zsolnay Kulturális Negyed) mi ha improvvisamente rivelato il suo volto di quotidianità, fatto di negozietti sbreccati ma dall’aria verace, di abitanti di Pécs che correvano per piccole o grandi faccende e di viali dall’aura post-socialista proiettata su un orizzonte di rinnovamento a cavallo tra l’Europa e una certa aura di povertà locale – certo, diverso dall’armonia architettonica del centro storico, ma non meno magnetico.

Ho sempre amato esplorare le zone non turistiche – chi ha letto Berretti Erasmus lo sa. L’ho fatto in Inghilterra, in Olanda, in Polonia e altrove, ivi incluso il mio quartiere a Firenze, Ponte a Greve. E “la passeggiata nei dintorni” è un rituale che mi serve a connettermi con la verità dell’esistenza di ogni giorno. Perciò, andare a fare un salto al Penny Market accanto all’avveniristico auditorium di Pécs Kodály Központ e a un centro di accessori per auto, che si chiama come una delle grandi famiglie di banchieri fiorentini (Bárdi, con la “a” lunga), è un modo per toccare con mano l’olio, l’asfalto e il cartone della vita.

Nel percorrere quelle poche centinaia di metri, mentre il caldo ricominciava a farsi sentire, ho provato una sensazione che forse non sentivo dai primi tempi del mio Erasmus inglese: un riaffacciarmi su nuove prospettive – che è anche parte dell’esperienza dell’io narrante del mio romanzo di viaggio in corso di stesura – e un senso di potenzialità che si spalancano a ventaglio. L’ho preso come un buon segno, che dimostra che la periferia sa sempre riservare uno sguardo fuori dagli schemi della prevedibilità, carico di tutte le sollecitazioni sensoriali – visive, olfattive, tattili e uditive – che si possono percepire camminando per strada.
Ho fatto una piccola spesa al minimarket, dove non c’era proprio tutto quello che speravo di trovare – per esempio la salsa di pomodoro –, ma frutta e verdura in abbondanza, conserve di pesce e pane integrale di buona qualità. Prezzi bassi, per noi, ma so che qui il livello degli stipendi e i contratti di lavoro non sono il massimo (del resto, anche l’Italia in questo campo non scherza). Soprattutto, però, mi hanno catturato i suoni, come vi dicevo già l’ultima volta. Ho studiato un altro po’ l’ungherese e comincio ad afferrare qualche parola, e soprattutto a cogliere la bellezza della fluidità musicale di questa lingua, che, pur essendone totalmente diverso, mi ricorda certi tratti “elfici” dello svedese.

Se è vero che è stata la fascinazione per le lingue a motivare Tolkien a inventare Arda, con la sua storia millenaria e le sue epopee, prendo la mia particolare suggestione linguistica come un buon viatico. La difficoltà non mi spaventa. Del resto, già il polacco è stata una bella bestia da affrontare – e lo è ancora. L’ungherese, però, ha un grado di complessità e imprevedibilità che mi ricorda l’estrema difficoltà della tecnica chitarristica, dove si devono tenere contemporaneamente presenti moltissime cose, e magari se ne fa bene una ma se ne sbagliano altre cinque. Ancora, infatti, non mi azzardo a parlarlo, e mi districo nella quotidianità con l’inglese. Ma ci arriverò.
In serata, dopo una pausa-relax in cui ho sonnecchiato e studiato un po’ di grammatica, sono uscito per una cena da Károly e sua moglie, cui ha partecipato anche un simpatico traduttore e interprete italo-ungherese, Emanuele Gorrieri. Sulla strada per andare lì, l’acquazzone è stato violento, ma mi ha permesso di osservare da vicino, sotto una tettoia, un’officina per la riparazione di apparecchi odontotecnici e dei ragazzi bagnati fradici che correvano per tornare a casa. Poi, quando l’intensità della pioggia è diminuita e sono ripartito, per qualche breve momento sono tornato alla loro età, mentre imboccavo il corso principale di Pécs, Király utca, e attraversavo una sorta di torrentello formato dall’acqua che scendeva da una rampa. Allora mi è arrivata una folata di odore di foglie bagnate che mi ricordava non sapevo bene cosa.

Ci ho riflettuto un attimo e mi è tornato in mente: era lo stesso odore che si sentiva al campino dei “giardini” a Ponte a Greve quando, durante la festa del quartiere, ci giocavamo le partite del torneo di calcetto. Allora, forse preda di una suggestione proustiana, ho pensato che l’Ognidove è anche Ogniquando, come – sempre per rimanere al pallone – dimostra il fatto che domani sera, dopo trentatré anni, la Fiorentina tornerà a giocare una finale di una coppa europea. E, non ultimo, il fatto che ancor oggi, nonostante tutte le difficoltà degli ultimi anni, sono impegnato a perseguire un obiettivo che è la mia vocazione, e che passa attraverso ogni “dove” e ogni “quando”, e al momento è nel qui e ora di Pécs. E domani toccherà la classe d’italiano del liceo Kodály, dove sono stato invitato a parlare con gli studenti.
(Le mie foto che trovate qui ritraggono alcuni momenti della giornata)