Primavera e consapevolezza

PRIMAVERA E CONSAPEVOLEZZA

Primavera

Giovanni Pascoli, nella poesia L’aquilone, scriveva: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico”, riferendosi all’arrivo della primavera. Una miglior istantanea del rinnovamento dell’aria di questo inizio di stagione non si potrebbe immaginare. In questi giorni – pur sapendo che sta per arrivare una nuova sferzata di freddo – l’ho sperimentato. Anzi, proprio in questa commistione di novità e “ancestralità” dell’energia primaverile ho colto una delle dimostrazioni del fatto (comprovato dalla fisica quantistica) che il tempo, in definitiva, non esiste, dunque è perfettamente normale sentir vibrare nell’aria frequenze correlate a emozioni appartenenti a epoche lontane. Non mi riferisco solo all’infanzia (aspetto approfondito nei racconti della mia prossima pubblicazione condivisa con Carlo Cuppini e Sandra Salvato, Da luoghi lontani, in uscita per Arkadia Editore il 14 aprile), ma ai sogni, alle emozioni e alle realtà percettive di altre epoche.

Personalmente, la primavera mi evoca giornate assolate pomeridiane in salsa medievale, un po’ come in certi episodi del Decameron o dei Racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini. Oppure certi scenari liberi e percorsi dal vento delle praterie di Rohan nel Signore degli Anelli di Tolkien.

Al contempo, però, per me questa primavera è il territorio dei nodi che vengono al pettine per sciogliersi una volta per tutte. Delle questioni interiori più antiche che vengono finalmente decifrate. Senza dubbio, il mio lavoro di “traduzione” più impegnativo (e a volte doloroso) di sempre, fondamentale per aprire uno scenario di creatività fluida come mai prima l’ho sperimentata.

In questi due anni segnati dalla pandemia ho scritto moltissimo, completando un romanzo psicologico-viscerale che ho tradotto anche in inglese, un noir dai riflessi spirituali ambientato sull’Appennino, un romanzo distopico legato alle dinamiche della società del controllo (e sia pur scisso dalla serie della fine di internet) e una raccolta di racconti ambientati tra Toscana e Irlanda. Inoltre, ho revisionato un thriller tra il brillante e il drammatico che avevo scritto anni prima. E adesso, come sapete, sto lavorando al sequel di quel romanzo distopico (il primo romanzo “post-distopico”, forse, di cui si sentirà parlare) e a quello di quel thriller. Profondità vs. (o magari insieme a) superficie, come ho già avuto modo di sottolineare in questo blog.

Tutto questo lavoro, accompagnato dalle mie traduzioni letterarie e dalle mie ricerche interiori, ha riempito un tempo vuoto, che presto tornerà a popolarsi della promozione della nuova uscita di cui sopra e di giornate non più segnate da abominevoli quanto inefficaci restrizioni e discriminazioni.

Ora, però, mi pongo una domanda: perché a volte, nonostante tutto l’impegno e lo sbattimento, ci si sente come se non si fosse fatto abbastanza? La ragione – che questa primavera risolutiva mi costringe a pormi – è che diamo troppa importanza all’opinione degli altri, al senso del dovere fino a se stesso, piuttosto che al piacere dello stare qui e ora facendo ciò che si ama. In passato mia madre (che è tra le persone più generose che conosca) mi ha fatto notare questo mio (e di tanti) difetto, dovuto in realtà all’istinto di desiderare il bene di tutti. Pensiero lodevole, magari, ma capace di perforare le nostre difese bio-energetiche, rendendoci sacchi vuoti esposti all’indebita “spazzatura emotiva” degli altri. Su questo aspetto riflettevo qui qualche giorno fa.

Il punto è che nessuno può fare il nostro irrinunciabile lavoro di centratura al nostro posto, né possiamo farlo noi per gli altri. Ecco perché è decisivo, a un certo punto, “amare se stessi”, e attenzione, non l’Ego, ma il Sé, la nostra vocazione profonda, la radice della nostra identità. Solo così potremo dare (non a tutti, ma a chi risuonerà con noi) il contributo specifico che ci è proprio.

Troppa parte del pensiero occidentale, anche influenzato da una visione esageratamente penalizzante del pensiero cristiano, si basa sulla rinuncia al proprio desiderio per il bene collettivo. Faccio notare, tuttavia, che Gesù ci ha invitato a dare la nostra vita per gli altri, sì, ma non a sotterrare il nostro talento, né a insistere presso la porta di chi non ci accoglie, ma anzi a scuotere la polvere dai nostri sandali e a proseguire.

Al mondo ci si deve sempre offrire per quello che si è, e dare il meglio che si ha dentro, che fluisce spontaneamente dal cuore (IV chakra, che regola tutti gli altri ed è alla base anche della salute fisica) e si riversa sul mondo per chi vorrà accoglierlo. E si badi bene, dico “ci si deve” non nel senso dell’obbligo, ma dell’onere: ovvero, se non lo facciamo, paghiamo il conto sia noi che gli altri (perché si attivano dinamiche kharmiche di dipendenza reciproca e di risonanza “in negativo” che accentuano e perpetuano il problema finché non ne prendiamo consapevolezza – anzi, proprio per farcela prendere).

Nessun egoismo, dunque, ma anche nessuno zelo missionario fine a se stesso. Solo autentica espressione del Sé, che è Dio-in-noi. Adesione “umile” (ovvero humilis,”vicina al terreno”), quindi concreta, coi piedi per terra (I chakra, del radicamento), al presente senza tempo in cui siamo inseriti, mentre la nostra testa (VII chakra, della corona) resta aperta alle energie sottili più elevate, allo Spirito che agisce in noi e attraverso noi – in quanto centrati nel Sé.

Ecco come una nuova primavera di “sole atemporale” può disporre a rinnovarsi. Compenetrandoci in questo stato, saremo massimamente aperti al nostro miglior potenziale e al mondo, senza tuttavia incorporarne le schifezze. Non solo, ma potremo desiderare, meditare e pregare con la certezza che ogni nostra richiesta vada dritta al cuore di Dio e venga accolta – a volte, in forme che non siamo ancora in grado di comprendere.