MESSAGGI DEI SOGNI E SCRITTURA
Mi capita spesso – per me che, fino a poco tempo fa, ero nottambulo – di svegliarmi molto presto. E mi accorgo che, verso le sei del mattino, sono massimamente recettivo. I canali energetico-spirituali sono aperti, i sogni sono altamente rivelatori e i messaggi che ricevo sono chiarissimi.
Spesso hanno a che fare con la trama di ciò che sto scrivendo. Quello che vedo e sento riguardo al mio nuovo libro (quello post-distopico di cui vi ho già scritto) ha a che fare con un orizzonte di rinascita, oltre il buio manipolatorio del presente e oltre ogni dualismo. Si tratta di un nuovo linguaggio, come sperimentare una nuova lingua o un nuovo tipo di musica. È una frontiera che ho sperimentato poche altre volte. Anzi, è la prima, almeno in modo così marcato.
Qualcosa del genere mi era già successo, ma molto meno intensamente, mentre scrivevo Viale dei silenzi (Arkadia Editore). Lì l’aspetto-chiave era stato il dialogo dell’io narrante con il padre, che rifletteva (sia pur in una cornice di eventi non autobiografica) il mio dialogo spirituale con mio padre.
Per esempio in questo pezzo, dove Roberto, lo scrittore protagonista del romanzo, rileggeva in un suo manoscritto parole che aveva immaginato pronunciate dal genitore:
“Ricorderai Firenze. Penserai alla sua mole artistica come a un corpo esterno a te, nel quale a stento ti riconoscerai. A come si è trasformata, passando dalla paura degli anni di piombo e dai vecchi autobus verdi a due piani al benessere degli anni ‘80, con i loro vezzi paninari e il fermento della scena musicale underground; per poi virare nell’inizio della crisi di idee e di soldi degli anni ‘90, quando facevi il liceo e i figli di papà occupavano le scuole, mentre io iniziavo a mancare sempre più spesso. Sarai solo chissà dove e ripenserai al travaso nel Duemila, al disagio dell’avvento dell’euro, allo shock dell’11 settembre. Riandrai agli inizi della tua carriera letteraria, alle tortuosità del tuo percorso – ai tormenti vertiginosi che ti avranno condotto fin dove sarai. E ti domanderai dove sia iniziata la scollatura, tanto nel mondo intorno a noi quanto nella nostra famiglia. Dove sia finita quella vecchia Firenze verace e ribelle, figlia di quella che aveva resistito ai nazisti, e dove la Toscana gagliarda delle campagne, sommerse dall’onda del turismo preconfezionato e delle sofisticatezze enogastronomiche. Tu ormai sarai fuori da tutto questo, e ti chiederai quanto rimanga ancora in te di quel mondo, e quanto di te in lui. La risposta alla seconda domanda forse saranno i tuoi libri; quella alla prima, dovrai trovarla tu.”
(Giovanni Agnoloni, Viale dei silenzi, Arkadia Editore, pag. 45)
Colgo dunque come altamente significativo il fatto che, ultimamente, stia sognando spesso mio padre. E mi viene da pensare che il suo comparirmi nei miei percorsi onirici abbia la stessa funzione di certi miei personaggi, che, un po’ come i temi dei miei romanzi distopici raccolti in Internet. Cronache della fine (Galaad Edizioni), svolgono un ruolo anticipatorio – i romanzi rispetto alla realtà della società del controllo, mentre i personaggi rispetto ai miei sviluppi personali.
Come il Roberto di Viale dei silenzi, mi sto addentrando un “oltre” – narrativo e filosofico, intendo – avvalendomi del dialogo intimo con chi mi è caro come di un elastico per innescare un effetto-fionda. E questo vale rispetto a mio padre, ma anche alla mia fidanzata, persa fisicamente nell’ottobre 2009.
Per me questa è la dimostrazione essenziale di come l’autorialità non possa intendersi se non in parte come “creazione”, mentre si tratta prevalentemente di “invenzione” (dal latino “invenire” = trovare), un meccanismo nel quale l’autore – come i migliori interpreti musicali – deve rendersi il più possibile trasparente (pur mantenendo una propria voce distintiva) rispetto a un messaggio vibrazionale che viene da prima di lui, e che lo attraversa per riversarsi nel mondo. E dimostra anche che non siamo soli, ma costantemente impegnati in una sinfonia – o coro – che coinvolge chi è al di qua e chi è di là della soglia. È il concetto cristiano della Comunione dei Santi, e quello a cui alludevo nell’ultimo atto della quadrilogia della fine di internet, L’ultimo angolo di mondo finito, dove – parlando di due personaggi-chiave, che oggi mi viene spontaneo ricollegare alla mia compagna e a mio padre (anche se al tempo lui ancora c’era), avevo scritto:
“Per me era un orizzonte nuovo sentire sulla punta delle dita le energie di milioni di pensieri: sogni raminghi che si affastellavano, intrecciandosi e sovrapponendosi in una trama apparentemente priva di coerenza, ma in realtà percorsa da un filo segreto. Stava alla mia intelligenza emotiva recuperarlo e rafforzarlo.
Neanche al tempo dei miei lontani studi avrei mai pensato che si potesse sprofondare così dalla mente al cuore; che la razionalità potesse immergersi a tal punto nell’intuito e aprirsi alla ricezione di significati ampi e sfaccettati quanto l’universo.
Quella meditazione era una preghiera che scaturiva dal centro del mio essere. Una preghiera fatta di ascolto. E c’era ancora Leyla a nutrirla. Insieme al suo ispiratore, Joseph, il genio che più di chiunque altro aveva saputo coniugare scienza e spirito.
Oltre tutto questo, percepivo un coro di presenze capaci di connettere vivi e morti.
Anime al di qua e al di là del confine.”
(Giovanni Agnoloni, Internet. Cronache della fine, Galaad Edizioni, pagg. 441-442)
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(nella mia foto, la baia di Schull, in Irlanda, dov’è ambientato un altro mio romanzo d’investigazione, tuttora inedito, che unisce la mia indagine personale agli orizzonti spirituali cui prima alludevo)