VECCHI QUADERNI…

“…Quanto tempo è passato”, verrebbe da dire, parafrasando l’ormai proverbiale vecchio scarpone. Eppure, a volte a dire la cosa più banale si fa centro. Quando molti anni fa iniziai a scrivere il mio primo saggio su Tolkien, l’ormai fuori catalogo Letteratura del fantastico – I giardini di Lorien – che, ho scoperto, si può trovare usato su vari siti, tra cui ebay, che lo offre a 30 euri (venghino, venghino!) -, lo feci appunto su uno di questi vecchi quaderni (v. prima foto), o se preferite block-notes, a quadretti, che già all’università mi erano serviti per prendere appunti e costruire schemi utili allo studio.
Da allora, salve poche eccezioni, la scrittura a mano mi è sempre stata compagna, seguendomi nei miei viaggi per lo più sotto forma di taccuini neri tascabili (v. seconda foto), che hanno accolto la prima stesura di praticamente tutti i miei libri di narrativa. Scrivere a penna su carta per me è un esercizio imprescindibile, e per “esercizio” non intendo in senso stretto un “esercitarmi” per scrivere meglio. No, faccio proprio riferimento a una sorta di pratica meditativa, così come vivo anche lo studio della chitarra classica. Per me è un modulare pensieri-ed-emozioni in una trama articolata e con uno stile ormai perfettamente rispondente alla mia voce interiore, e che non nasce a caso, ma precisamente come il frutto di tutte le esperienze (esterne e interiori) che lo hanno preceduto e preparato.
Scrivere a mano – e ancor più farlo su vecchi quaderni (recentemente ne ho ritrovati alcuni in casa) – è un modo per veicolare, attraverso la penna che la mano impugna, la stessa energia, ovvero le frequenze del proprio campo fisico-emozionale. Insomma, il nostro “holos” si riversa in quel punto, esattamente come, secondo alcuni esperti, il guinzaglio trasmette al cane l’energia del padrone, per cui, se lui è nervoso, anche la bestiola si agita. Ecco, tra le altre cose, perché non credo nelle metodologie di scrittura che prevedono tot parole al giorno. Perché la scrittura fa fuoriuscire contenuti che scaturiscono da dentro e, se il “dentro” non è pronto, è inutile forzarlo. Meglio aspettare, e poi fluirà da sé.
Difficilmente, infatti, sperimento il “blocco dello scrittore”. Non mi è successo quasi mai. Anzi, il problema, in un certo senso, è star dietro a tutte le idee che proliferano – ragion per cui scrivo più testi contemporaneamente, beneficiando anche di una certa varietà di temi e stili, che mi evita il rischio della monotonia e della noia. E questo succede perché non forzo la mano. Dopo aver passato buona parte della mia vita a “fare il mio dovere”, ho capito che il modo migliore per far bene qualunque cosa si faccia sia fare ciò che va quando va, ovvero, in sintesi, fare ciò che si ama. La nostra coscienza e perfino il nostro corpo sanno meglio di chiunque altro che cosa fa per noi. Ora, fatte salve le ineludibili necessità economiche, perché bisognerebbe dedicare il tempo libero a fare cose che non si amano o a fare sì quelle che si amano, ma in un modo che non ci viene naturale?

Inoltre, scrivere a mano su taccuini o vecchi quaderni presenta due ulteriori vantaggi. Il primo, poter buttare giù appunti sparsi, note a margine, scampoli di descrizioni o dialoghi senza un ordine preciso, salvo poi andare a recuperarli al momento della prima battitura al computer – che diventa già una prima mano di editing -, ricombinandoli, modificandoli e intuendo così sviluppi inaspettati nella trama e nello spirito stesso dell’opera. Il secondo, dare alla scrittura stessa un tocco di “artigianalità” in più, che ne arricchisce il fascino artistico, il quale fa tutt’uno con l’esperienza dell’immersione nell’universo creativo.
Questo secondo aspetto lo si percepisce soprattutto quando si va a scrivere in un caffè o altro locale pubblico, magari in una città estera o nel quadro di una residenza letteraria – come ho raccontato nell’ultimo capitolo di Berretti Erasmus (Fusta Editore) ed evocato nella vicenda di Roberto, il protagonista di Viale dei silenzi (Arkadia Editore), ma anche in alcuni momenti di Internet. Cronache della fine (Galaad Edizioni), quelli che riguardano il girovagare per l’Europa e gli Stati Uniti dello scrittore olandese Kasper Van der Maart.
Di quest’ultimo libro, per esempio, vorrei citare un pezzo in tema, che mi fu ispirato da una colazione nel caffè del Teatro della Commedia sotto il Palazzo della Cultura e della Scienza di Varsavia. Ben esprime il flusso di coscienza che spesso si riversa nelle pause della scrittura in simili “antri creativi”, finendo inevitabilmente per alimentarlo.
“Varsavia, 28 maggio 2027
Cosa rimane a un bar, se gli togli la musica, il tintinnio delle tazze, l’aroma di caffè e il vento che muove gli alberi fuori della finestra? Quello che resta al termine di una lunga giornata di lavoro: una stanchezza essenziale, un silenzio che sa di vuoto.
C’è stata una pausa fra due brani pop, e il mondo sembra essersi congelato in un crampo d’inerzia. Poi la musica è ripresa e il flusso di vita è ripartito.
Sono pieno di dubbi. Sento di dover capire, e per capire devo perdermi. Forse le coincidenze che ho incontrato finora non mi chiedevano solo di seguirle. Erano un codice con cui dovevo imparare a dialogare, lasciando che s’intrecciasse al mio libero arbitrio, come in un contrappunto musicale.
Se il mio matrimonio non fosse agli sgoccioli, magari tornerei ad Amsterdam e cercherei di dimenticare. E se il mio tour promozionale non fosse finito ancor prima di cominciare, probabilmente tenterei di rimettermi in contatto con la mia casa editrice italiana.
Ma le cose sono andate troppo oltre. Di fatto, non ho più un passato e forse nemmeno un presente. L’attimo in cui vivo mi si sgretola tra le mani come sabbia asciutta, lasciandomi la sensazione di qualcosa che dovrei notare, ma che mi sfugge continuamente. E in questa micro-frammentazione di impressioni intravedo, come un disegno tracciato su una mappa, un itinerario che immagino di essere destinato a percorrere a lungo.
(Giovanni Agnoloni, Internet. Cronache della fine, Galaad Edizioni, 2021, pagg. 424-425)

Inoltre, proprio il fatto di risfogliare – magari nel corso delle suddette pause – uno di quei vecchi quaderni per riprendere punti rimasti in sospeso, chiarire snodi dell’intreccio narrativo o anche verificare consonanze e fili conduttori nascosti interni alla trama, che a loro volta aprono scenari imprevisti e fanno intuire dove la storia ci vuole condurre, è un enorme aiuto alla qualità di ciò che si sta scrivendo.
Infine, una volta che si è trascritto il tutto sul computer, è utile tracciare un frego trasversale a penna o a lapis sulle pagine già copiate, come a sancire che quella parte “è fatta”. Anche questo dà una spinta importante al senso di progressione nel lavoro, e moralmente motiva e galvanizza.
Last but not least, una nota personalissima. Tornare oggi, al termine di un lungo processo di recupero interiore (vi ho accennato qui) a usare i vecchi quaderni degli inizi mi dà l’impressione di un cerchio che si è chiuso e di una nuova stagione della vita che si è appena aperta. A volte succede proprio questo – e ne sto scrivendo proprio nel mio nuovo romanzo post-distopico in corso di stesura. Ovvero, mentre il pensiero si sgonfia e la mente si acquieta, torniamo a provare sensazioni di libertà appartenenti ai momenti migliori dell’infanzia, quando non avevamo tante sovrastrutture appesantenti. E allora accediamo all’Ognidove e, quasi senza accorgercene, ci prepariamo a un nuovo viaggio, curiosamente coincidente con la vita “da qui in avanti”.