Traduzione scrittura musica

TRADUZIONE SCRITTURA MUSICA

Ho deciso di aprire una sezione blog, all’interno del mio sito, per condividere non solo notizie inerenti ai miei libri e alle mie pubblicazioni, ma riflessioni sulla scrittura, la traduzione, la musica (che pure studio, attraverso la pratica della chitarra classica, ma questa da dilettante) e le vie dell’arte e della consapevolezza.

Do quindi il benvenuto a tutti voi con qualche considerazione pubblicata qualche giorno fa su social media.

Traduzione, scrittura

Ieri sera mi esercitavo con la chitarra (che, come forse sapete, studio da dilettante e considero un’ottima scuola di scrittura, cosa di cui sono grato al Maestro Ganesh Del Vescovo). Insomma, suonavo, e a un certo punto ho voluto riprendere in mano un pezzo che avevo accantonato da un bel po’ di tempo, e che in precedenza sapevo a memoria.

Ora, una delle cose più difficili, nella chitarra, è leggere la musica, cosa in cui, alla base, non è che io sia un fenomeno. A ogni nota, infatti, non corrisponde un solo tasto, come nel pianoforte, ma varie possibili posizioni, lungo la tastiera, sulle diverse corde, e a seconda dei casi conviene di più scegliere quelle più basse o quelle più alte.

Via via che impari un pezzo, però, la lettura diventa più agevole, come se venisse decrittata. Poi finisce che lo impari a memoria, anche per rendere più fluida l’esecuzione, e amen: lo spartito non lo guardi più.

Passano i mesi e finisce che lo dimentichi. Allora riprendi in mano lo spartito, e il problema iniziale si ripresenta. Preciso che lo sto ancora affrontando, dunque non so come andrà a finire, ma la sensazione è che, con questi “ritorni al testo”, si sviluppi più rapidamente la capacità di leggere.

Da qui la mia riflessione comparativa: quando si traduce, soprattutto da una lingua “nuova” – come per me adesso sono lo svedese e il polacco, nella loro applicazione alle traduzioni -, all’inizio si può avere l’impressione di trovarsi davanti a un testo criptato, una sorta di “muro” da scalfire e perforare.

Poi, però, l’abitudine della lettura e l’accumulo (in gran parte automatico) di nuovi vocaboli (detesto imparare liste a memoria, dunque leggo a manetta la stessa pagina e li assorbo come un bambino) fanno sì che ciò davanti a cui prima imprecavi interiormente “Cazzo è?” diventi una frase di senso compiuto, e le cose acquistino tridimensionalità e scorrevolezza.

Spesso, nelle mie presentazioni di libri, mi è stato chiesto se traduzione e scrittura si alimentino a vicenda, e ho risposto sempre di sì, perché la scrittura aiuta a tradurre meglio, e tradurre, a sua volta, affina la sensibilità letteraria.

Di più: anche quando si scrive si “traduce”, ma da uno spartito interiore, quello le cui note sono le emozioni, le atmosfere e i concetti di cui di sostanzia il romanzo o il racconto che scriviamo. Questo, però, in ultima analisi, è vero anche della traduzione, perché nel tradurre non ci si limita a trasporre una lingua in un’altra, ma si scende nel significato, e dunque nel nucleo dell’emozione/atmosfera/concetto che ogni parola in sé racchiude. Quindi, in definitiva, è quel nucleo che conta, e la successione di tutti quei nuclei è appunto lo spartito da imparare a leggere.

Perciò credo che la pratica di uno strumento – e in particolare della chitarra – aiuti moltissimo ad affinare la “chirurgicità” dello sguardo dello scrittore-traduttore, in quanto la lingua – qualunque essa sia – non è che la veste materiale di un tessuto sostanzialmente immateriale, fatto di musica, ovvero di vibrazioni energetico-spirituali.

Da qui la mia riflessione comparativa: quando si traduce, soprattutto da una lingua “nuova” – come per me adesso sono lo svedese e il polacco, nella loro applicazione alle traduzioni -, all’inizio si può avere l’impressione di trovarsi davanti a un testo criptato, una sorta di “muro” da scalfire e perforare.

Poi, però, l’abitudine della lettura e l’accumulo (in gran parte automatico) di nuovi vocaboli (detesto imparare liste a memoria, dunque leggo a manetta la stessa pagina e li assorbo come un bambino) fanno sì che ciò davanti a cui prima imprecavi interiormente “Cazzo è?” diventi una frase di senso compiuto, e le cose acquistino tridimensionalità e scorrevolezza.

Spesso, nelle mie presentazioni di libri, mi è stato chiesto se traduzione e scrittura si alimentino a vicenda, e ho risposto sempre di sì, perché la scrittura aiuta a tradurre meglio, e tradurre, a sua volta, affina la sensibilità letteraria.

Di più: anche quando si scrive si “traduce”, ma da uno spartito interiore, quello le cui note sono le emozioni, le atmosfere e i concetti di cui di sostanzia il romanzo o il racconto che scriviamo. Questo, però, in ultima analisi, è vero anche della traduzione, perché nel tradurre non ci si limita a trasporre una lingua in un’altra, ma si scende nel significato, e dunque nel nucleo dell’emozione/atmosfera/concetto che ogni parola in sé racchiude. Quindi, in definitiva, è quel nucleo che conta, e la successione di tutti quei nuclei è appunto lo spartito da imparare a leggere.

Perciò credo che la pratica di uno strumento – e in particolare della chitarra – aiuti moltissimo ad affinare la “chirurgicità” dello sguardo dello scrittore-traduttore, in quanto la lingua – qualunque essa sia – non è che la veste materiale di un tessuto sostanzialmente immateriale, fatto di musica, ovvero di vibrazioni energetico-spirituali.