SILENZIO DA TRADURRE
In questi giorni, nei quali – mi si passi l’espressione un po’ grezza – ho chiuso tanti cerchi interiori, è nata in me una riflessione sul valore del silenzio: una dimensione che, in questi due anni e mezzo di sofferenza, deliri, polemiche e attacchi, è stata sommersa da una ridda di voci, urla e aggressività.
Il problema di fondo del silenzio è che costa. E un problema aggiuntivo è che è difficile da interpretare; difficile da tradurre. Andiamo per ordine. Senza dubbio costa, dicevo. Sì, perché la tentazione di non perdere il treno di un dibattito, di una notizia (vera o manipolata che sia), di una polemica o altro – the fear of missing out, come direbbero in America -, ci ammorba pressoché costantemente. E allora anche l’atto più elementare e automatico, respirare, diventa un riflesso non solo involontario, com’è naturale che sia, ma in-cosciente, ovvero non consapevole. Così, al respiro viene inevitabilmente ad associarsi la dualità, la contrapposizione e quindi l’affanno, l’ansia, l’incapacità di dire di no a questo gioco perverso, e la conseguente chiusura del cuore, del plesso solare, sede della spontaneità della vocazione più profonda – della genuinità del Sé.
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