SUPERFICIE, PROFONDITÀ E DENUNCIA
Altra riflessione che mi è capitato di fare ieri in una quelle fasi di “meditazione spontanea” che sono parti integranti del mio percorso artistico, ma anche umano e spirituale, e nelle quali, tutt’a un tratto, le cose appaiono di una chiarezza cristallina.
Negli anni ho cercato, da scrittore, di approfondire la ricerca dell'”essere lì”, ovvero la sospensione dell’incredulità (il restituire intensamente lo spirito dei luoghi e delle situazioni, calandovi appieno il lettore), della quale per me il primo maestro è stato Tolkien, che ne parla diffusamente nel saggio Sulle fiabe (in italiano, disponibile nel volume Albero e foglia, Bompiani, 2000). Peraltro, questi sono argomenti che ho toccato anche nel mio personale contributo alla raccolta di studi tolkieniani internazionali, da me curata e tradotta, Tolkien. La Luce e l’Ombra (disponibile in un volume italo-inglese edito da Kipple Officina Libraria).
Al contempo, la lettura (e la traduzione di saggi su) uno dei maestri del post-moderno, Roberto Bolaño (v. Bolaño selvaggio, a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, che ho tradotto con Marino Magliani per Miraggi Edizioni), mi ha formato (insieme alle mie vicissitudini personali) all’esplorazione del Profondo, la smisurata caverna viscerale che ognuno di noi si porta dentro.
Dunque, superficie e profondità, che in realtà si dimostrano essere la stessa cosa, o meglio i poli estremi di un unico viaggio di “andata e ritorno” (dalla superficie al profondo e di nuovo alla superficie) che è non solo perfettamente in linea con il “There and back again” di tolkieniana memoria, ma con l’esperienza subcreativa, descritta da Tolkien come i superamento della mortale noia dell’abitudine per conoscere la realtà vera e recuperare quindi la superficie, quando ormai abbiamo occhi capaci di vederla in modo totalmente nuovo. Per lui questo passaggio interiore avviene attraverso l’esperienza di un mondo “altro”, ma anche attraverso prove di discesa nel Profondo, come avviene con Gandalf quando precipita negli abissi di Moria insieme al Balrog per rinascere a vita nuova (ne parla Thomas Honegger ne suo contributo alla suddetta raccolta di studi).
Bolaño, per parte sua, ci mette davanti a un mondo che è esso stesso, in buona parte, tanto l’abisso di Moria (si pensi al delirio del male in 2666) e la dimensione “altra” dell’universo creativo (mi riferisco ad esempio alla variopinta realtà artistica tratteggiata ne I detective selvaggi).
Ultimamente, conoscendo più a fondo (pur senza diventarne un esperto) il grande Pasolini, soprattutto attraverso la sua sensibilità di esploratore di luoghi “in superficie” (ne La lunga strada di sabbia e, in parte, ne Il sogno di una cosa) e di censore di costumi e depravazioni del sistema economico-politico (negli Scritti corsari), ho ritrovato la misura di questa sintesi di “moto orizzontale” e “sprofondamento interiore”, riportati però a una dimensione di prossimità al dramma concreto dell’oggi, alle losche dinamiche del Potere, alla sua capacità di insinuarsi nella normalità del quotidiano.
In altre parole, Pasolini ha reso tremendamente vicino e incandescente quello che – agli estremi opposti di un ideale segmento che va dalla grande letteratura fantastica alla letteratura postmoderna – tanto in Tolkien quanto in Bolaño era fondamentalmente mito.
Oggi, da umile allievo di tanta tradizione, ma da immodesto esecutore delle braci che mi danno il combustibile per creare qualcosa di nuovo, mi trovo a scrivere un romanzo, La via dell’altrove, che vuole raccogliere questi tre fili ideali, ma soprattutto l’ultimo, quello pasoliniano. Perché mai come adesso abbiamo la necessità di sentire l’incandescente prossimità del mito-fatto-storia, la perturbante ma anche liberante presenza degli archetipi nella vita vissuta giorno per giorno.
Abbiamo, in sostanza, bisogno di vivere l’esperienza letteraria – e artistica in genere – in chiave di individuazione junghiana (v. ultimo hyperlink), insomma di ricerca e ottenimento (doloroso ma liberatorio) della centratura – brillantemente evocata giorni fa dall’amico Enrico Macioci in un suo post su Facebook -, ovvero della presa di coscienza del Sé, di chi realmente siamo dietro tante maschere, di qual è la nostra vocazione, il motivo per cui siamo nati. E di attuarlo, facendo carta straccia delle manipolazioni mentali della società e della pubblicità, dell’omologazione indotta da un potere che non vuole farci trovare l’Altrove inteso come dimensione interiore capace di realizzarci ovunque siamo o andiamo, ma come “Nowhere” (per rifarmi ai Beatles), “nessun luogo”, dimensione di puro smarrimento e perdita di senso. Proprio quella che l’uso delle intelligenze artificiali (o la resa preventiva alle stesse, “perché tanto non può che essere così”) renderebbe possibile. Ma che è impossibile, perché la meravigliosa complessità e la carica spirituale di quanto ho evocato in precedenza non è riproducibile da enti privi di coscienza, che restano fondamentalmente stronzate erette a nuovo “sol dell’avvenire” o, al contrario, “prossimo Armageddon”.
Del resto, si tratta degli stessi pericoli che ho paventato – e scongiurato, letterariamente, almeno in parte – nella mia tetralogia distopica Internet. Cronache della fine (Galaad Edizioni), dove ho suggerito, come reazione all’imperante dilagare della Rete e dei suoi ammennicoli elettronici, una risposta in termini di ricerca interiore e di nuovo radicamento nella Natura (senza peraltro rinnegare la misura in cui la tecnologia può essere realmente e innocuamente utile). Cosa che, infatti, si sta realizzando in tanti che prendono le distanze da pc e cellulari e iniziano un percorso di consapevolezza e di benessere naturale – e sono tanti, forse quanti quelli con la testa sempre immersa negli smartphone, solo che se ne parla meno perché non giovano al lucro del sistema.
Oggi, dopo aver anche pubblicato Viale dei silenzi (Arkadia Editore) e Berretti Erasmus (Fusta Editore), due romanzi di viaggio e di ricerca interiore, e scritto vari altri romanzi ancora inediti che si misurano con il tema del terrorismo e quello della Resistenza, sento più che mai il bisogno di scrivere un’opera che coniughi la mia passione per i luoghi, e dunque per il viaggio, e per l’indagine psicologica, con questa dimensione di testimonianza e denuncia socio-politica, che abbraccerà gli anni della pandemia e gli ultimi quattro-cinque decenni di storia italiana ed europea.
In questo senso, posso affermare che il lungo percorso di ricerca dentro me stesso e attraverso i luoghi del mondo è giunto a un punto di svolta decisivo.