LINGUA E MISTERO
Ieri, da uno dei miei tandem linguistici via Skype (in polacco), è nata un’idea che in realtà avevo già in parte sviluppato ne La via dell’altrove, il romanzo iniziato in Ungheria durante la residenza dello Hungarian Writers’ Residence Program che vi ho raccontato qui: parlare, inter alia, della difficoltà di apprendimento di una lingua completamente nuova, o comunque del progressivo aggiungere “pezzi” – ed elementi di comprensione (letta e ascoltata, e quindi scritta e parlata) di un idioma che si conosce solo in parte – partendo dal presupposto che perfino la propria lingua madre non si finisce mai di scoprirla, per cui si tratta di un vero e proprio life-long learning.
Nel romanzo il problema me lo sono posto rispetto alla lingua europea misteriosa per eccellenza, ovvero l’ungherese (almeno, se si esclude il basco), diversa da tutto come lessico e come impianto di regole. Il personaggio, infatti, approda in Ungheria (com’è stato per me) senza parlarne ancora una parola e affonda in questa sorta di sabbie mobili comunicative, al contempo tormentose e piacevoli, iniziando gradualmente a vedere le cose in un altro modo, perfino riguardo alla propria vita. Insomma, inizia a “capire”.

La foto l’ho scattata nel 2019 nei dintorni di Schull, nel West Cork, in Irlanda. Studiare una lingua nuova ha un po’ il fascino di scoprire un territorio situato in un “altrove” dalle risonanze avvolgenti come questa sorta di “Terra di mezzo”, che poi è l’Altrove interiore
Penso che studiare una lingua – soprattutto se molto lontana dalla propria, o dal ceppo della propria – sia un modo per avvicinarsi al “limite” (in senso quasi matematico) di se stessi. In effetti, è immaginarsi in un “altrove” che è sì un “altro luogo” in senso geografico, ma anche interiore. È un progressivo avvicinarsi a una meta che ha che fare con il proprio percorso vocazionale – ovviamente, se va di farlo, altrimenti significa che la vocazione non è quella.
Dunque il tema tornerà, nel romanzo in questione ma, in genere, in tutta la mia riflessione letteraria e filosofica, e quindi in altre cose a cui sto lavorando.
In effetti, un altro tema centrale in quello che scrivo, ovvero la natura e le sue voci, è strettamente collegato al linguaggio, nella misura in cui è prima di tutto il suono a esserlo (e le parole sono, alla base, insiemi di suoni, e perciò di frequenze energetiche che portano con sé significati prima di tutto perché veicolano emozioni, ovvero informazioni a livello vibrazional-intuitivo). Nell’incipit de L’ultimo angolo di mondo finito, ultimo atto della quadrilogia della fine di internet, raccolta in Internet. Cronache della fine (Galaad Edizioni), dicevo proprio questo, cercando di dar voce all’apparentemente inesprimibile bisogno della natura di comunicare, che poi è il nostro quando studiamo le lingue:
“I rami salivano intrecciandosi progressivamente in una griglia filiforme, come ragnatele di diramazioni genealogiche perdute in un labirinto di infinite possibilità. Ascendevano in arabeschi ipnotici, creando una tessitura sottile, leggera quanto l’aria, simile a una nota impalpabile, stratificata, metafisica. Un reticolo di antenne estremamente recettive, capaci di catturare ogni sospiro latente nell’aria e di intuire i pensieri nel loro informe abbozzarsi.
Ognuno di quei terminali, alle sue estremità, diventava pressoché invisibile, perdendosi nell’atmosfera in un’enigmatica transizione dallo stato solido allo stato gassoso. E in ognuno di essi era impressa l’anima di un significato precedente la nascita della vita e del linguaggio.
Osservai a lungo quella scena, rendendomi conto poco a poco che non si trattava di uno spettacolo statico, ma di una frenesia dinamica, in cui micro-componenti sospesi tra massa ed energia si muovevano incessantemente, in una danza senza posa, ricevendo informazioni dall’esterno e inviandone a loro volta.
Ciascuna di quelle unità elementari, scendendo lungo la dorsale sempre più spessa di ogni ramo, si irrobustiva con esso, facendosi lettera, sillaba, parola, discorso, per immergersi infine nel tronco, dove sprofondava in un metabolismo segreto.
Ma in cima, sulla punta di quei sensori, vi erano soltanto suoni, remoti eppure inequivocabili.
Era su quel margine elusivo che si svolgeva la partita più delicata: quella tra il silenzio e la creazione. Lì si rivelava il confine tra il nulla e la realtà.
Lì nasceva il mondo.“
(p. 411)