Assonanze tra lingue (e parchi, e notti)

ASSONANZE TRA LINGUE (E PARCHI, E NOTTI)

Ho trascorso le ultime due giornate di residenza letteraria a Pécs (che non sono le ultime in assoluto, dato che resterò qui fino al 17 giugno) prevalentemente scrivendo il mio romanzo di viaggio, di cui già sapete qualcosa per le anticipazioni che vi ho dato. E visto che qui allo Zsolnay Cultural Quarter, dove risiedo, c’era un’invasione di scolaresche, ho puntato sul vicino parco Balokány Liget, che offre tavoli all’aperto, un piacevolissimo laghetto e un bar in una struttura in stile pagoda, per concentrarmi sulle peregrinazioni del mio personaggio, sospese tra una Pécs che per adesso immagina soltanto e varie altre città – in primis la Spalato che mi ospitò nel 2018 in un’altra residenza, nell’ambito del programma “Marko Marulić“.

assonanze (laghetto)

Stanno emergendo diverse importanti assonanze. E intendo dire: assonanze linguistiche e tematiche. Prima cosa, per il poco che sto apprendendo della lingua ungherese, noto altre curiose affinità – del tutto ingiustificabili su un piano glottologico, lo so, ma utili nell’apprendimento “in parallelo” – con lo svedese. Tipo questa: nonostante il fatto che in ungherese la struttura possessiva (o, più in genere, di specificazione – insomma, il genitivo) si costruisca in genere (ma non sempre) anteponendo il possessore alla cosa posseduta (un po’ come nel genitivo sassone inglese), quando uno chiede tipo “una bottiglia d’acqua” (Egy üveg víz) la costruzione è la stessa dello svedese (en flaska vatten), ovvero l’inverso di quello che uno si aspetterebbe (cioè la “cosa posseduta” precede il “possessore”, come del resto anche in italiano), e per di più (come appunto in svedese) senza l’equivalente della preposizione “di”. Insomma, suona come “una bottiglia acqua”.

assonanze (pagoda)

Ma questi potrebbero essere anche solo onanismi linguistici di un traduttore amante del parlato, e non solo dello “scritto”. Quello che conta è il sostrato di circolarità di suoni e percezioni, che coinvolge anche l’ambiente e le sue atmosfere – e che, se avete letto i miei libri, sapete che per me conta esattamente quanto i personaggi; anzi, è un personaggio e genera appunto interessantissime assonanze.

Il lavorare in un parco, ad esempio, è un’abitudine che coltivo ovunque vada, e anche nel mio quartiere a Firenze. È una situazione – e una modalità – di risintonizzazione con l’energia naturale, che è la stessa (in principio) ovunque, anche se si modula diversamente a seconda dei luoghi, perché va a integrarsi variamente con l’architettura e l’urbanistica locali, oltre che con la sensibilità, il modus cogitandi e i suoni degli abitanti del posto (tra l’altro, il rapporto tra natura e architettura è oggetto della tesi di dottorato di Karolina Kopańska all’Università di Danzica, in gran parte incentrata sui miei romanzi).

Ciò non valga come modo per “diluire” in un discorso tutto incentrato sulle assonanze interculturali quelle che sono le specificità locali. Queste ultime, anzi, sono l’anima del viaggio e anche del mio romanzo. Il mio scopo è piuttosto rimanere nella logica cui mi sono più volte richiamato in questi giorni, ovvero quella degli “aloni culturali” diversi ma intercomunicanti, e al contempo per spiegare il modo in cui mi sto relazionando con un luogo, una lingua e una cultura per me del tutto nuovi (ovvero l’Ungheria e l’ungherese). E, sottolineo, il mio è pur sempre un approccio tra il meditativo e il contemplativo, ma intriso della concretezza degli ambienti, fatta anche di strada, di maniglie di porte da toccare, di mani da stringere (alla faccia delle fobie indotte dalla pandemia) e di cibi da assaggiare.

assonanze (teatro)

Proprio in quest’ottica, venerdì sera ho fatto una lunga passeggiata percorrendo tutto il corso cittadino (Király utca) dalla residenza fino alla scenografica piazza centrale (Széchenyi tér): così, per farmi una sia pur rapida – visto il tanto lavoro – idea della “vita notturna” di Pécs. E, come avevo intuito già di giorno, ho trovato una vivace popolazione giovanile (molto giovane, in effetti), dedita a piacevoli conversazioni nei tavolini del bar e lungo la strada, e tante coppiette (ho la sensazione che qui la gente si fidanzi e si sposi presto), oltre a qualche – immancabile ovunque – presenza un po’ più “equivoca” in bella mostra nei caffè o in circolazione in cerca di potenziali acquirenti di sostanze varie (questa, almeno, l’impressione che mi hanno fatto, non molto diversa del resto da quella che si ha camminando per diversi angoli della stessa Firenze).

Anzi, per qualche instante ho anche avuto la percezione – lieve e non particolarmente inquietante – che mi stessero seguendo per offrirmi qualcosa, dato che giravo solo. E proprio questo mi ha dato l’idea perfetta per collegare i tratti più geografici e intimistici del mio romanzo di viaggio con l’idea di usarlo come grimaldello per un’analisi politico-sociale di quello che l’Italia e l’Europa sono diventate nel e dopo il periodo della pandemia. Ovviamente non vi anticipo in che termini, ma vi assicuro che il nesso c’è, mediato appunto da “presenze osservanti”, e nel libro lo si vedrà.

assonanze (bar)

Il giorno e la notte, dunque: due termini (in sostanza, luce e ombra) a me cari, come sa anche chi ha letto Tolkien. La Luce e l’Ombra, la raccolta di studi tolkienani italo-inglese da me curata per Kipple Officina Libraria, e al contempo due archetipi di riferimento (insieme ad altri) per guardare a luoghi sia pur diversi con la consapevolezza che gli “assoluti” per osservarli e approfondirne le assonanze sono gli stessi che reggono il mondo in ogni sua parte – esattamente come, pur variando le lingue (in barba alla già smentita versione più radicale dell’ipotesi di Sapir-Whorf), i tratti di fondo della mente umana sono sempre gli stessi.

Tuttavia, quello che noto di specifico qui a Pécs, come già avevo anticipato, è un’energia giovanile che si spinge verso il futuro, anche attraverso lo studio delle lingue straniere (con la netta prevalenza di inglese e tedesco), ma al contempo porta avanti la tranquillità di abitudini locali e di ritmi ereditati dal passato, che poi è il privilegio delle realtà provinciali. Non a caso, lo Hungarian Writers’ Residence Program non ha Budapest tra le sue sedi, in quanto vuole promuovere la conoscenza dell’Ungheria meno nota (anche se sarò felicissimo di conoscere la capitale, nel prosieguo del mio viaggio).

Questo mi ricorda un po’ quando, al tempo della scelta universitaria della mia sede di programma Erasmus, pur potendo optare per Londra scelsi la meno nota e più appartata Leicester, come ricordo nel mio memoir Berretti Erasmus. E non avrei potuto fare scelta più felice. Anche qui a Pécs, pur sotto pressione per le scadenze, sto ritrovando un passo della quotidianità che mi mancava da tempo, e insieme uno spunto per un salto quantico in avanti nel mio percorso artistico e linguistico. Il lavoro di scrittore e traduttore a volte estrania dalla realtà, anche se cala precipitosamente in un irrinunciabile dentro viscerale: servono dunque delle “fuoriuscite”, per dirla con Tolkien, dal “drab blur of triteness or familiarity” (che si potrebbe rendere con “la grigia nebulosità della scontatezza o dell’abitudine”), per tornare a vedere con occhi nuovi anche le cose che fanno parte della vita di ogni giorno. E credo che questo soggiorno e questo romanzo rappresentino per me appunto questo passo.