Unità nel fare

UNITÀ NEL FARE

L’altro giorno ho fatto un post sulla sequenza interiore schivare-focalizzarsi-fare, che è un po’ la sintesi del conseguire (e attuare) una consapevolezza fattiva e libera da fardelli mentali o trappole legate alle dinamiche relazionali.

Poi, ieri notte, come spesso mi succede, mi si è rivelato un ulteriore aspetto, che considero la tappa successiva del percorso: l’unità dell’essere nel fare.

Unità
Uno scorcio della campagna di Pomino, in Toscana (foto mia)

La vita di tanti (troppi) di noi si basa su esclusioni e compromessi, come se dedicarsi a fare le cose che amiamo e sentiamo profondamente fosse inaccettabile perché giudicato male dagli altri e dalla stessa parte di noi che viene condizionata dal prossimo. Lo si vede nelle scelte sentimentali, professionali e perfino politiche che la gente fa (penso a tanti rapporti nati dal fatto di dover “per forza” avere un o una partner, a lavori odiosi scelti neanche per bisogno ma per sentirsi socialmente inseriti, piuttosto che dedicarsi anche rischiando a una vera passione, e ancora all’acritica adesione ai ricatti “GP” del periodo pandemico, o anche a come la gente si beve qualunque notizia propinata dai media ufficiale in tema di guerre, morti sospette e altre “squisitezze” del mondo contemporaneo, bollando qualunque versione alternativa e sia pur documentata e ragionata come complottismo, come ben evidenziato dal film Truth – Il prezzo della verità di James Vanderbilt, che ho rivisto ieri sera).

Insomma, il problema è che si vorrebbe fare qualcosa che ci garba profondamente ma non lo si fa – o lo si fa, sì, ma col freno a mano tirato – perché ci sentiamo “non a posto” a causa del giudizio che sentiamo incombere su di noi (e/o premere da dentro di noi, o meglio dalla scorza di noi stessi, l’ego in cui si solidificano le ombre dell’inconscio individuale e collettivo).

Ora, l’essenza dello schivare consiste proprio nel “far pulito” di tutti questi condizionamenti, portandoli a volatilizzarsi dal nostro orizzonte (mediante pratiche di consapevolezza, meditazione, ricentratura tramite le terapie olistiche più raffinate e preghiera del cuore – non certo con le pasticchine o le goccioline chimiche, che alla radice non spostano di una virgola il problema). Il risultato di ciò è il focalizzarsi, ovvero il riuscire a compenetrarsi appieno con ciò che sentiamo, che porta al fare, ovvero al manifestare di cui parlavo l’altra volta: l’esprimere il Sé concretamente, andando finemente in culo (perché quando ci va ci vuole – i perbenisti sono pregati di accomodarsi alla porta) ai ricatti morali e alle pippe mentali.

C’è però, appunto, un ultimo tranello possibile: ovvero la sensazione, realizzando il Sé, di precipitare in una sorta di gorgo luminoso (e numinoso, perché in sé divino – la radice la radice del nome “dio”, deus in latino, ϑεός, theòs in greco, dêvas in sanscrito vedico, nelle lingue indoarie o ariane è infatti *div-, = *diu-/*diau-, e si ricollega all’idea di “splendore”, e dunque di “Luce”, di vibrazione pura, come argomento nel mio nuovo saggio Voci oltre il buio, ancora inedito). E questo spaventa, proprio perché l’Io – la nostra parte cosciente che gestisce i rapporti con la realtà esterna, dirimendo le scelte e aiutandoci a focalizzarci-fare, dunque a orientarci operativamente sul Sé, l’identità e il nucleo più profondo della nostra vocazione – in quell’ultimo e decisivo passo si diluisce, anzi direi che si fa accogliere da un seno più vasto e onnicomprensivo, ovvero approda al Sé e vi s’immerge. E sull’orlo di questo “buco di luce” (per riprendere, ribaltandola, la metafora del buco nero, una volta entrati nel quale non si torna indietro) si prova un senso di smarrimento e solitudine, come se compiere quel passo fosse causa di un irreversibile “troncare i ponti” col mondo.

Non potrebbe esserci inganno più grande. Questa, infatti, è l’ultima tentazione diabolica (“dia-bolos”, non a caso, vuole dire “separatore”, dal greco “dia-ballo”), laddove la realtà è che stiamo facendo il passo verso l’Unità. Non si tronca infatti nessun ponte e non c’è nessun isolamento. Semplicemente, si accede a un piano di realtà più sottile e onnipervasivo, che comprende in sé anche il mondo a cui eravamo abituati, ma senza più i suoi tranelli.

In altre parole, nel fare-manifestare non vi è alcuna separazione. C’è, semmai, una nuova unità, che investe tutto l’essere e non lascia fuori nessuno- tranne chi non vuole farsi accogliere in questa prospettiva e quindi ne rifugge. Ma questi altri non è se non chi, prima, provava a ingannare e a “dar buoni consigli” – come diceva Fabrizio De André – salvo poi lasciarti comunque solo, come Gollum fa con Frodo nel Signore degli Anelli di Tolkien allontanandone l’amico Sam per poi lasciarlo in balia del ragno Shelob. E questi soggetti è comunque meglio perderli che trovarli. Il collodiano Lucignolo, in confronto, era proprio un ragazzo.