Lorenzo Mari, “In ordine sparso”

LORENZO MARI, “IN ORDINE SPARSO”

Lorenzo Mari, In ordine sparso, Galaad Edizioni, 2023

Mi sono trovato a completare la lettura di questo nuovo libro di Lorenzo Mari – che ho conosciuto anni fa prima di tutto come traduttore del comune amico poeta irlandese Billy Ramsell –  in un periodo di relativa calma, dovuta sia ai fastidi da cambio-stagione, sia a una nuova presa di coscienza interiore in atto in queste settimane. Così, oltre a riuscire ad aver più tempo per leggere (nonostante il lavoro che chiama), sono entrato nello stato mentale giusto per interpretare questa singolare raccolta di racconti che è quasi un concept-book, dato che tutti gli scritti che la formano – pur originariamente pubblicati in sedi diverse – hanno un unico filo conduttore. Ed è proprio questo a collimare con le mie riflessioni di questi giorni.

In ordine sparso raffigura da diverse angolazioni le varie situazioni di vita in un immaginario (ma chissà quanto, poi), paese dal nome “oscurato”, ovvero P***, che già in quanto tale diventa una sorta di simbolo, o di archetipo, della vita di provincia (mi viene quasi da pensarlo come una “Macondo in P-otenza”). È dunque, in qualche modo, un emblema della dimensione del “limite”, del presente sempre uguale a se stesso e proprio per questo, in sé, “pena esistenziale” – se è vero che, come diceva sempre il mio professore d’italiano al liceo, le anime dannate di Dante avevano proprio nell’essere sempre uguale del loro castigo il proprio maggior tormento.

Lorenzo Mari, in questa quotidianità – per citare l’articolo di Marino Magliani riportato nel risvolto di copertina – di “mineralità gelide e a tratti incandescenti”, si cala mani e piedi, trovandovi di volta in volta svariate sfaccettature. Che si tratti della minaccia delle crepe apparentemente prodotte da un terremoto, del pensiero angoscioso di un fantomatico “orsolupo” che fa strage di animali e malcapitati viandanti sulle montagne dei dintorni, o della fissazione del proverbiale “scemo del villaggio” per la formazione della Cecoslovacchia ai Mondiali di calcio di Italia ’90, l’autore entra nei meandri di questa realtà apparentemente immutabile, ma in realtà profondamente mossa – e, reciprocamente, agitata e scossa, sì, ma portatrice di uno spirito capace di ascendere fuori dal tempo.

Proprio qui s’innestano i miei pensieri degli ultimi giorni. Me ne sono reso conto riguardando un film di Carlo Verdone che amo in modo particolare, ovvero Al lupo al lupo, che racconta la storia di una “stasi dinamica” (la ricerca di un padre scomparso da parte di tre figli – ragion per cui l’ho citato anche nel mio consonante romanzo Viale dei silenzi). Anche lì c’è una situazione di blocco esistenziale, con tante parentesi che si aprono al suo interno diramandosi in molteplici direzioni. E, in questo armonioso marasma, emerge chiara la percezione che il tempo esiste, sì, ma dopo tutto (buffo a dirsi) invece no, perché l’eco – bello e struggente – delle cose di una volta è ancora qui. Eccome se lo è.

Anche nei racconti di Lorenzo Mari è così. Lui attinge da un passato se vogliamo ancestrale, dove perfino le cose di trentacinque anni fa sembrano appartenere alla preistoria, inclusi i giocatori cecoslovacchi, tra cui l’ex-viola Luboš Kubík. Eppure, quel mondo irradia ancora il presente con la sua carica ironica e paradossale. Si produce perciò un gioco di riverberi e rinterzi della memoria, in fondo non diverso da quello che a volte mi trovo a vivere quando penso agli attori del cinema italiano, alcuni dei quali – come Verdone – “vedo” sempre come quando erano giovani, mentre altri – come Alberto Sordi e tutti i grandi della sua generazione – ho conosciuto quando erano già maturi, ragion per cui, quando poi ho iniziato a vedere i loro film più antichi, li ho “riscoperti” giovani. Per altri spettatori, di una ventina d’anni più grandi di me, invece, probabilmente loro saranno sempre al massimo dei quarantenni, come per me è  Verdone ancora adesso.

È così che è il paesino di P*** in In ordine sparso: centro di un crogiolo di prospettive intrecciate e di epoche riflesse le une nelle altre, che potrebbe portarci a perdere “marquezianamente” l’orientamento, se a sostenerlo non ci fosse la prosa solida e razionale dell’autore, che tuttavia non nega scorci commossi di contemplazione di quel “mondo interno” plurisfaccettato e dei tanti mondi interiori che lo popolano.

Che poi si tratti di realtà o possibilità, di persone concrete o di spettri, è indubbiamente secondario.